Attraverso la croce si giunge alla luce

Il simbolo per eccellenza del Cristianesimo ci mostra il valore della sofferenza per la conquista della vera gloria.

14 settembre – Festa dell’Esaltazione della Santa Croce

Il significato storico della festa celebrata questa domenica risale alla scoperta della vera Croce di Cristo a Gerusalemme da parte di Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, intorno all’anno 320, e alla consacrazione, nella stessa città, della Basilica del Santo Sepolcro il 13 settembre dell’anno 335. Il giorno seguente, il Patriarca di Gerusalemme presentò, per la prima volta, le reliquie all’adorazione solenne dei fedeli.

Sembra singolare che la festa sia dedicata alla reliquia e non a Colui che la rende adorabile, Nostro Signore Gesù Cristo. Il fatto è che, al di là delle circostanze storiche della sua scoperta, la Croce è diventata a vario titolo uno dei massimi simboli della Fede Cattolica ed ha cominciato a sormontare le torri delle chiese e le più splendide corone dei re della Cristianità.

Qual è la ragione più profonda di questa affermazione?

Nell’Antico Testamento, il Signore Si è rivelato come il creatore dell’universo, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio del roveto ardente e delle piaghe d’Egitto, il Dio che ha sterminato i profeti di Baal per mano di Elia. Nel Nuovo Testamento troviamo lo stesso Dio, ma fattosi Uomo per salvarci: Nostro Signore Gesù Cristo, la Seconda Persona della Santissima Trinità incarnata.

La principale differenza tra i due Testamenti sta proprio nella sofferenza per amore dell’umanità. La sofferenza di un Dio umanato che, non riuscendo a toccare il cuore dei peccatori con manifestazioni portentose, realizza l’impensabile: Si rende contingente e Si mette nelle mani di aguzzini che, come retribuzione per gli innumerevoli miracoli da Lui operati, Lo disprezzano, Lo chiamano indemoniato, Lo consegnano alle autorità come un malfattore, Lo incoronano di spine, Lo crocifiggono, Lo trafiggono con una lancia… E come testimone di tutti questi oltraggi, è rimasta la Croce, bagnata dal Preziosissimo Sangue, segnata dai fori dei chiodi e dall’iscrizione posta su di essa come segno di ignominia: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei» (Gv 19, 19).

I patimenti bene accetti sono, come ci insegna Mons. João, un sacramentale che ci santifica e ci salva: è il peso lieve e soave della Croce di Nostro Signore. Ma esiste anche un’altra forma di sofferenza: il giogo di Satana.

Se vogliamo l’infelicità, portiamo le nostre croci con ribellione; se preferiamo essere felici, facciamolo con amore e rassegnazione. Il Dott. Plinio Corrêa de Oliveira sintetizza con pulcritudine questa duplice opzione: «Vuoi definire un uomo? Chiedigli se al centro della sua vita c’è una croce! Chiedi quale croce porta e come la porta: l’uomo così sarà definito. […] ‘Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!’ (Mt 26, 39), chiese Nostro Signore all’inizio della Passione. Alla fine, Egli gridò: ‘Dio mio, Dio mio, perché Mi hai abbandonato?’ (Mt 27, 46). Anche lì arrivò il sacrificio! Ma poi vennero le glorie della Risurrezione! Quindi la concezione cattolica della vita è chiara. Ciò che è veramente bello è imitare Nostro Signore Gesù Cristo e portare la nostra croce fino alla fine!».1 ◊

 

Note


1 CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Conferenza. São Paulo, 6/10/ 1984.

 

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