Il sole stava diffondendo i suoi ultimi raggi sulla Foresta Nera. Solamente i rami più alti dei suoi alberi frondosi ricevevano un residuo di luce rossastra quando, nella penombra, fu possibile scorgere la figura di un uomo che camminava verso la città di Ettenheim, situata a quattro leghe dal Reno. Avvicinandosi al chiarore proveniente dalle case, si potevano distinguere i suoi lineamenti: circa trent’anni, alto un metro e settanta, capelli castani, volto ovale, lungo e regolare, occhi grigio-marroni, bocca di media grandezza, naso aquilino, mento leggermente appuntito; molto robusto, agile e pieno di grazia.1 Era armato, poiché veniva da una battuta di caccia. Tutti lo chiamavano “Signor Duca di Enghien”, e il suo nome era Louis Antoine Henri di Borbone. Figlio dei Duchi di Borbone, era nato nel maniero di Chantilly il 2 agosto 1772, il suo nonno paterno era il Principe di Condé e, quello materno, Luigi Filippo d’Orléans.
Arrivato a casa – una sorta di piccolo castello gotico a due piani – quel fatidico 14 marzo 1804, fu subito accolto allegramente da Mohiloff, il suo cane da compagnia, ma cupamente da Féron, il suo cameriere personale. Quest’ultimo lo avvertì che due strani individui si erano aggirati intorno alla casa durante il giorno. Féron aveva seguito i loro movimenti attraverso la persiana e aveva mandato un altro servitore del principe, di nome Canone, a rintracciarli. Questi gli aveva assicurato che il volto di uno di loro non gli era sconosciuto; pensava che si trattasse di un poliziotto in incognito che aveva visto molte volte a Strasburgo, dove si recava frequentemente a fare provviste.
Il Duca non diede molta importanza al fatto ma, per rassicurare sua moglie, la Principessa Charlotte, decise di trascorrere qualche giorno lontano da Ettenheim. Fissò dunque la partenza per due giorni dopo.
Sospetti…
Quattro giorni prima, Réal, Consigliere di Stato e direttore della polizia francese, era entrato nell’ufficio del Primo Console e aveva trovato un omino chino su diverse carte geografiche che studiava il percorso del Reno da Friburgo a Bade, misurando le distanze e calcolando i tempi di percorrenza. Era Napoleone Bonaparte. Quando gli fu annunciato l’ingresso di Réal, lasciò le sue misurazioni geografiche ed esclamò:
— Allora, signor Réal, non mi avevate detto che il Duca d’Enghien è a quattro leghe dai miei confini e sta organizzando complotti militari?
Da alcuni mesi, infatti, giungevano a Bonaparte diversi avvertimenti che sostenevano l’esistenza di una cospirazione per realizzare un colpo di Stato e destituirlo dal potere, ripristinando i Borboni sul trono. Aveva saputo che Georges Cadoudal – uno dei maggiori capi dei controrivoluzionari realisti della Chouannerie nella Francia occidentale, che aveva attentato due volte contro la sua vita – si trovava a Parigi con un gruppo di uomini armati, sostenuti dai Generali Moreau e Pichegru. Aspettavano che un Principe di Borbone entrasse in Francia per poter prendere il potere.
Queste notizie terrorizzavano Napoleone. Temeva che gli facessero quello che lui stesso aveva fatto cinque anni prima, quando aveva rovesciato Barras, il leader del Direttorio, e aveva istituito il Consolato, diventando Primo Console; temeva, soprattutto, perché mancavano pochi mesi prima che la corona imperiale gli fosse posta sulla testa. Pertanto, era della massima importanza che qualsiasi messa in discussione della sua autorità fosse inesorabilmente repressa. Soprattutto, bisognava impedire l’ingresso di un eventuale Borbone in Francia, perché ciò avrebbe dato molta forza ai legittimisti.
Fu allora che gli giunse la notizia che a Parigi circolava un presunto leader realista, probabilmente un Principe Borbone. Chi poteva essere? Il Conte d’Artois e il Duca di Berry erano a Londra, il Duca d’Angoulême in Curlandia; era impossibile che si trattasse di uno di loro. Il più vicino era il Duca di Enghien, a sole quaranta leghe da Parigi, nella città di Ettenheim, dove viveva dal 1793 con il Vescovo di Rohan, di cui aveva sposato la nipote, Charlotte de Rohan-Rochefort. Aveva partecipato alle campagne controrivoluzionarie del 1793 e del 1795, agli ordini del nonno, il Principe di Condé. Era, di fatto, una figura molto pericolosa.
Così, Réal inviò il sindaco di Strasburgo a indagare sulla situazione del sospetto. Il suo rapporto fu terrificante: «Il Duca ha con sé a Ettenheim il Generale Dumouriez e un individuo di nome Smith, arrivato recentemente dall’Inghilterra. Intrattiene una corrispondenza attivissima con numerosi ufficiali emigrati riuniti a Offenburg e a Friburgo; una rivoluzione scoppierà in Francia molto presto».2
Terrorizzato dalla notizia di un presunto complotto contro la sua autorità, Napoleone decise di impedire l’entrata di un qualunque Borbone in Francia
Bonaparte si esasperò. Dumouriez e Smith erano figure estremamente pericolose per il suo preteso impero. Non si rese conto, però, di quanto la relazione fosse sbagliata! Il suo informatore, confuso dall’accento alsaziano, aveva inteso come “Dumouriez” chi in realtà si chiamava Marchese de Thumery; allo stesso modo, il pericoloso “Smith” non era altro che un semplice tenente di Condé, Schmidt. Ma Napoleone era impazzito a causa del suo amor proprio!
— Allora – egli disse – sono forse un cane che si può abbattere per strada? E i miei assassini sono entità sacre? Mi attaccano e io ricambierò guerra per guerra. Saprò come punire i loro complotti… La testa del colpevole mi farà giustizia.
La “caccia”
Nel frattempo, nel castello di Ettenheim, il duca dormiva tranquillamente, in attesa della caccia che era stata fissata con il Colonnello Grünstein per il giorno successivo. A causa della notizia allarmante del giorno prima, aveva soltanto concordato che Grünstein e il tenente Schmidt dormissero in una stanza accanto alla sua, con le armi cariche. Riteneva che le truppe francesi non avrebbero violato la neutralità del territorio di Bade per rapirlo e, se avessero avuto l’intenzione di farlo, non ci sarebbero riuscite, perché gli abitanti della città lo avrebbero difeso. Inoltre, la spedizione non avrebbe avuto il tempo di prepararsi per quella notte.
Ettenheim era in un profondo silenzio. Alle due Schmidt credette di sentire un calpestio di cavalli e svegliò il Barone Grünstein. Entrambi aprirono una finestra per verificare. La notte era buia e non videro nulla. Anche Canone si alzò, ma poco dopo tutti e tre si riaddormentarono.
Improvvisamente, alle cinque del mattino del 15 marzo, sentono uno sparo. Féron, allarmato, accorre urlando:
— Soldati!
Contemporaneamente si sente una voce che ordina di aprire le porte. Il principe prende il suo fucile.
Tuttavia, Grünstein, vedendo la quantità di guardie e di dragoni di cavalleria – erano più di duecento – dice che ogni resistenza è inutile e consiglia loro di arrendersi. Il duca depone l’arma e, con tutta calma, attende il suo arresto. I soldati entrano nella stanza e arrestano tutti.
Proprio in quel momento scoppia una sommossa in città. Al grido di «Fuoco!» e «Aiuto al principe!», gli abitanti di Ettenheim iniziano ad accorrere al castello. Ma è troppo tardi. Il popolo viene ingannato facendogli credere che tutto è stato concordato con il duca.
Enghien, Grünstein, i servi e Mohiloff, che non voleva lasciare il suo padrone, vengono condotti al mulino della Tuilerie. Il principe pensava che quel giorno avrebbe fatto una buona caccia – mai avrebbe immaginato di essere egli stesso la preda – e per questo indossava la sua tenuta da cacciatore tirolese, con ghette di pelle di cervo fino alle ginocchia e un cappello con galloni d’oro sulla testa.
Vengono fatti salire su un veicolo scortato da due gruppi di dragoni e portati alla cittadella di Strasburgo.
Al castello di Vincennes, una sentenza iniqua
Il duca si preparava già a una lunga prigionia quando, nelle prime ore del 17-18 marzo, fu svegliato da quattro soldati che gli ordinarono di alzarsi in fretta e di seguirli. Fu fatto salire su una carrozza da viaggio e partì per Parigi.
Non ci sono né atti di accusa, né prove, né testimoni, né difensore… I giudici sono d’accordo e condannano il duca a morte
Arrivato nella capitale due giorni dopo, la carrozza si fermò davanti al castello di Vincennes, allora governato da un certo Harel, un tipico opportunista camaleontico, «un po’ giacobino nel 1793, cospiratore all’epoca del Direttorio e spia sotto il Consolato».3 Aveva ricevuto la comunicazione che «un certo individuo» sarebbe stato portato lì e che tutto ciò che lo riguardava doveva essere mantenuto estremamente riservato. Enghien scese dalla carrozza esausto e affamato; il viaggio era stato lungo e non aveva mangiato dal mattino, per cui, dopo il pasto, si ritirò nella sua cella e dormì profondamente.
Alle sette di sera, il Generale Murat aveva ricevuto da Napoleone l’ordine di designare la commissione incaricata del processo militare del prigioniero. Il console stesso aveva scelto il Generale Hullin a presiederla e Savary sarebbe stato il controllore.
«Quando tutti sono riuniti, Hullin annuncia loro di cosa si tratta: essi devono, per espresso ordine del primo console, egli afferma, giudicare un prigioniero che non è altro che il Duca di Enghien. Cominciano a mormorare: non ci sono imputazioni, né prove, né testimoni, né difensori…».4 E Bonaparte vuole un esito immediato: tutto deve concludersi quella notte stessa.
Un tenente viene incaricato di svegliare il principe e di condurlo al processo… se così può esser chiamato! Viene accusato di aver tradito lo Stato, di aver stipulato un accordo con l’Inghilterra, di aver stabilito relazioni con Dumouriez e Pichegru, di aver cercato di assassinare Bonaparte. Lui spiega di non aver tradito la Francia combattendo contro la Repubblica, al contrario, di averla difesa dall’illegittimità; nega di aver preso parte a qualsiasi complotto controrivoluzionario, afferma di non conoscere né Dumouriez né Pichegru; confessa di ricevere un sussidio dall’Inghilterra, ma contesta di non essere mai stato in quel Paese.
Prima di firmare il processo verbale, scrive: «Faccio, insistentemente, la richiesta di avere un’udienza privata con il primo console, Napoleone Bonaparte. Il mio nome, la mia posizione, il mio modo di pensare e l’orrore della mia situazione mi fanno sperare che egli non rifiuterà la mia richiesta».5
L’imputato si ritira e iniziano le deliberazioni; gli viene negata l’udienza con Bonaparte perché ritengono che questo dispiacerebbe al console.
Il resto della seduta fu rapido: «Tutti i giudici furono d’accordo, e la pena di morte fu pronunciata all’unanimità: in applicazione dell’articolo… della legge di… così concepita… (Queste lacune sono del testo originale!)».6
Il controllore Savary prese subito la sentenza e si allontanò – sapeva bene cosa voleva Bonaparte… – per predisporre i preparativi per l’esecuzione. Chiamò sedici soldati e li condusse nel fossato del castello, dove si sarebbe conclusa la vita dell’ultimo discendente dei Condé.
Nel frattempo, il Duca di Enghien era nella sua cella, intrattenendosi con i gendarmi che lo sorvegliavano e accarezzando Mohiloff. All’improvviso, Harel entra e gli chiede di seguirlo. Il duca chiede:
— Dove mi portate? Volete seppellirmi in una oscura cella? Preferirei morire.
Gli dicono che, purtroppo, non andrà in una cella. Harel aggiunge:
— Signore, voglia seguirmi e raccogliere tutto il suo coraggio.
Calma e dignità nell’ora della morte
Lo portano al Padiglione della Regina, dove erano allineati i soldati. Leggono la sentenza di morte davanti all’imputato, che non provò alcun timore; rimase padrone di sé di fronte a questa terribile sorpresa.
Il condannato esprime le sue ultime volontà: vuole che una lettera, con una ciocca di capelli e l’anello nuziale, sia consegnata a sua moglie, la Principessa di Rohan-Rochefort – cosa che non fu fatta – e chiede che un sacerdote sia presente per le ultime funzioni. A questa richiesta qualcuno risponde:
— Vuole morire come un bigotto!
Anche se al potere, Bonaparte era insicuro; Enghien, imprigionato e condannato, conservava la pace dei figli della luce
Esecrando questo commento, si inginocchia per qualche istante, raccomanda la sua anima a Dio e, senza alcun segno di debolezza, esclama:
— Com’ è terribile morire così per mano dei francesi!
E lo strepito degli spari prende l’anima di questo eroe. Erano le tre del mattino del 21 marzo 1804.
Così disse il Dott. Plinio Corrêa de Oliveira a proposito di questo fatto: «La calma del Duca di Enghien in questo momento estremo, la sua dignità, la sua presenza di spirito […], tutto questo ha il soave odore della cavalleria. È bello vedere questo scintillare di luci di cavalleria brillare nell’epoca miserabile in cui il mondo è insudiciato dalla Rivoluzione Francese». 7
Se c’è qualcosa che merita di essere lodato nel giovane principe è il suo coraggio, in netto contrasto con l’insicurezza di Napoleone. Pur detenendo tutto il potere nelle sue mani, Bonaparte non era tranquillo, mentre Enghien, esiliato, prigioniero e condannato, manteneva quella pace dell’anima che solo i figli della luce possiedono.
C’era qualcosa di temerario in lui, è vero, ma se la sua temerarietà lo portò alla prigione e alla morte, il suo coraggio dignitoso e sereno gli conferì l’immortalità agli occhi della Storia. ◊
Note
1 I dati storici che compaiono in questo articolo sono tratti dalle opere: BERTAUD, Jean-Paul. Bonaparte et le Duc d’Enghien. Le duel des deux France. Paris: Robert Laffont, 1972; LENOTRE, Georges. Drames d’Histoire. Paris: Flammarion, 1935; WEISS, Juan Bautista. Historia Universal. Barcelona: La Educación, 1932, vol.XX.
2 HENRI-ROBERT. Os grandes processos da História. Rio de Janeiro: Globo, 1961, vol.III, p.193.
3 LENOTRE, op. cit., p.32.
4 Idem, p.37.
5 BERTAUD, op. cit., p.16.
6 LENOTRE, op. cit., p.40.
7 CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Ó Igreja Católica! In: Dr. Plinio. Anno XXI. N.239 (febbraio 2018); p.33.