L’affascinante ruolo delle corone, la cui parabola attraversa la Storia, risale agli albori della civiltà. Fin dall’Antichità i cesari di Roma si cingevano di allori, i barbari germanici di metalli preziosi e pietre abbaglianti, e, superando tutti loro in grandezza e gloria, lo stesso Figlio di Dio volle essere coronato di spine.
Che cosa rappresenteranno questi singolari gioielli per Dio e per gli uomini?
Incoronati dall’Altissimo
Tra gli israeliti era comune l’uso di indossare corone floreali come simbolo di gioia e ornamento festivo in occasione di banchetti e solennità.1 Ma esse si distinguevano anche come insegne di regalità, conferite direttamente da Dio ai suoi diletti: «Ho portato aiuto a un prode, ho innalzato un eletto tra il mio popolo» (Sal 89, 20).
Ora, mentre nel popolo ebraico i prediletti del Signore venivano da Lui elevati, a Roma solo i valorosi ottenevano – dagli uomini – tale ricompensa, rappresentata da corone di aspetto semplice, ma che col tempo si sarebbero trasformate in splendidi gioielli.
Premio dei valorosi
Essere eroi: ecco la condizione necessaria per essere incoronati nell’Impero Romano, non con il fatuo alloro dei cesari, ma con la decorazione degli autentici combattenti, di quelli che scrivevano la storia della Città Eterna col sangue e col ferro, rischiando la loro vita sui campi di battaglia.
Fu tra questi militari spietati che apparvero a Roma le prime corone elaborate. Acclamati dalla folla al ritorno dalla guerra, i vincitori ricevevano le decorazioni che le loro imprese meritavano: la corona muralis era assegnata al primo soldato che avesse scalato le mura di una città assediata; la corona vallaris era concessa al primo che avesse preso d’assalto l’accampamento nemico; la corona navalis era attribuita a chi avesse ottenuto una vittoria navale; la corona obsidionalis era la ricompensa del generale che avesse liberato un battaglione assediato. Le categorie di diademi destinati a lodare le prodezze delle legioni romane si moltiplicavano a ogni combattimento ed erano addirittura protette dalla legge, che consentiva ai meritevoli di indossarle durante il funerale o addirittura di riceverle dopo la morte.
Le corone erano, pertanto, molto apprezzate dai Romani, che le consideravano una ricompensa molto più preziosa di quantità d’oro e d’argento. Più tardi, questa tendenza finì per influenzare la Cristianità nascente.
La corona nella Civiltà Cristiana
Sembra naturale, quindi, che con l’avvento del Cristianesimo qualcosa di queste usanze – purificate e sublimate dal Sangue del Redentore – fosse adottato dai monarchi battezzati. Essi unirono sotto il simbolismo della corona la gloria di coloro che combattono, l’onore di quelli che governano e il segno della predilezione divina.
Per i primi imperatori cattolici d’Occidente, la corona rappresentava la circonferenza della Terra e il potere universale concesso ai sovrani. Essi cominciarono a essere incoronati dal Papa, che, a sua volta, era detentore del potere supremo, temporale e spirituale, ricevuto con le chiavi di San Pietro e rappresentato nella tiara pontificia.
A partire da allora, la corona divenne l’ornamento indiscusso della vera regalità e la santa croce, simbolo di salvezza, cominciò a sovrastarle tutte.
Il fardello dell’incarico sotto la lucentezza del potere
Nel corso dei secoli, i cristiani racchiusero le preziose reliquie della Passione in veri e propri gioielli, tesori di incalcolabile valore, gloria e memoria della Redenzione per la Chiesa. Così, il ferro di un chiodo della Crocifissione fu utilizzato, secondo la tradizione, per confezionare una delle corone più antiche e famose della Cristianità: la Corona di Ferro dei Longobardi.
Si racconta che sia stata realizzata nel VI secolo dalla regina Teodolinda come dono per suo marito, e che divenne l’insegna ufficiale di coloro che salivano al trono longobardo. La sua base è costituita da un anello di ferro ricoperto di lamine d’oro e pietre preziose, per ricordare a chi la indossava che la corona comporta un fardello il cui peso è nascosto sotto una lucentezza effimera e ingannevole.
Si ritiene che sia stata indossata da Carlo Magno in occasione della sua incoronazione a re dei Longobardi nel 774.
Sacrificio e croce sulle corone francesi
Nelle terre della Figlia Primogenita della Chiesa, il gioiello che cinse la fronte di quasi tutti i suoi re, da Filippo Augusto a Luigi XVI, e che finì purtroppo distrutto nei tragici giorni della Rivoluzione Francese, fu la cosiddetta Corona di Carlo Magno.
Secondo la tradizione, essa era composta da due elementi: un diadema d’oro con quattro fiori di giglio e tempestato di pietre, con all’interno una sorta di mitra di velluto rosso intarsiata di perle e sormontata da un grande rubino. Questo era il simbolo del sangue e del sacrificio, ornamenti necessari per coloro che detengono il potere; le perle sul velluto rappresentavano le stelle del cielo, speranza di salvezza per ogni cristiano.
Questa caratteristica unione tra il potere e la croce raggiunse il suo apice ai tempi del Re Luigi IX, il quale, meglio di ogni altro, seppe essere un monarca crocifisso a beneficio del suo popolo. Per simboleggiare questo sublime ideale che viveva e difendeva, fece confezionare un’altra corona di incomparabile valore. La Corona di San Luigi, o Santa Corona, possiede al suo interno reliquie della Passione circondate di gemme preziose, una vera opera d’arte e di pietà medievale.
Simbolo della Gerusalemme Celeste
Una delle corone più belle e famose del mondo si trova a Vienna: quella del Sacro Romano Impero.
Sebbene appaia in diversi ritratti sulla testa dell’Imperatore Carlo Magno, storicamente fu fabbricata dopo la sua morte, per l’incoronazione dell’Imperatore Ottone I nel 962, data in cui iniziò la storia del Sacro Impero. Rimase come prerogativa del monarca supremo per otto secoli e fu indossata per l’ultima volta nel 1792 per l’incoronazione di Francesco II.
Sebbene diciotto imperatori siano stati incoronati dai Papi, non è certo che questo gioiello sia stato trasportato in Italia in occasione di ogni cerimonia. Dopo il Rinascimento, tuttavia, il giuramento imperiale fu trasferito ad Aquisgrana o a Francoforte e la corona cominciò ad essere utilizzata con più frequenza.
Realizzata in forma ottagonale e arricchita nel corso dei secoli, le dodici pietre che ne ornano il lato anteriore simboleggiano le fondamenta della Gerusalemme Celeste (cfr. Ap 21, 19-20), modello perfettissimo di società a cui il Sacro Impero doveva assomigliare. Le figure smaltate che rappresentano Gesù Cristo, Davide, Salomone, Ezechia e Isaia, così come la natura delle gemme che le circondano e che evocano la corazza del sommo sacerdote dell’Antica Legge, sottolineano il valore morale e sacro di questa corona.
Gioiello che “personifica” la regalità
Forse nessun altro gioiello possiede una storia così curiosa come la Santa Corona degli ungheresi.
Nelle leggende nazionali era legata alla memoria del terribile Attila, re degli unni, che gli ungheresi consideravano, con qualche ragione, come uno dei loro antenati. Si dice che, poco prima di devastare la città di Roma, un Angelo fu inviato a fermarlo, promettendo ai suoi discendenti una corona di durata infinita, conferita dal Successore degli Apostoli. Reale o meno, questa previsione si avverò effettivamente all’inizio dell’XI secolo, quando il Duca Santo Stefano – fino ad allora apostolo armato d’Ungheria – ricevette la famosa corona dalle mani di Papa Silvestro II, insieme al titolo di re.
Era un’opera di rara perfezione, realizzata in oro fino, a forma di emisfero e intarsiata con una grande quantità di gemme e perle. Sormontata da una croce latina, era decorata con smalti e figure che rappresentavano Nostro Signore Gesù Cristo, la Santissima Vergine, gli Apostoli, alcuni martiri e degli Angeli.
Nel 1702 l’imperatore d’Oriente, Michele Ducas, donò al re ungherese Géza II un’altra corona, aperta e di stile bizantino, anch’essa molto preziosa. Vent’anni dopo, i due diademi furono fusi in uno solo, formando una nuova corona, superiore in ricchezza.
Per gli ungheresi, questa corona “personificava” la regalità. I gioielli che la decoravano avrebbero dovuto essere spirituali piuttosto che materiali. Lo stesso Santo Stefano fece un elenco di dieci fiori-virtù con cui si sarebbe dovuto onorare la Santa Corona d’Ungheria. Tra questi figuravano la fede, l’amore per la Chiesa, la fedeltà, il coraggio, la sollecitudine, la cortesia e fiducia dei principi e degli altri nobili, la pazienza e la giustizia, i buoni consigli, la preghiera e persino la ricchezza culturale portata alla nazione dagli immigrati.2
La Santa Corona era trattata dal popolo come una persona reale, con giurisdizione, palazzo, ufficiali e guardie propri. Profanarla non era solo un crimine di lesa maestà, ma anche un sacrilegio! I re erano considerati tali solo dopo l’incoronazione e solo a partire da allora i loro atti diventavano legittimi e definitivi.
Tuttavia, tale venerazione non impedì che la Santa Corona affrontasse nel corso dei secoli sorprendenti vicissitudini, tra guerre e sconvolgimenti politici e sociali. Essa fu strappata dal suo santuario, consegnata per tradimento, portata fuori dal paese, venduta e comprata nuovamente, persa e riconquistata, e persino interrata ai piedi di un albero, circostanza che causò l’inclinazione da un lato della croce che la sormontava.
Prova d’amore per la monarchia
Attorno alle corone nacquero bellissime cerimonie e venerabili usanze. Tuttavia, tra le monarchie che sono sopravvissute al corso della Storia, quella inglese è una delle poche che ancora effettua incoronazioni solenni ed è forse l’unica che conserva gran parte degli antichi riti. Questa tradizione fiorì con Sant’Edoardo il Confessore e ha quindi radici cattoliche, anche se attualmente è l’occasione in cui viene investito il capo della chiesa scismatica anglicana.
Dal XIII secolo, la Corona di Sant’Edoardo fu utilizzata in diverse consacrazioni. Sfortunatamente la sua versione originale, conservata come una santa reliquia nell’Abbazia di Westminster, fu alla fine fusa da Olivier Cromwell nel 1649, durante l’instaurazione temporanea della repubblica in Inghilterra. Nel 1660, però, la monarchia fu restaurata sotto Carlo II, che decise di fabbricare un altro diadema regale sulla base del precedente. In questo modo onorava la memoria di Sant’Edoardo e simboleggiava il vincolo della sua corona con il passato britannico.
Molti dei gioielli reali venduti durante la repubblica furono acquistati dai monarchici e poi restituiti alla nuova corona. Ecco perché la Corona di Sant’Edoardo che conosciamo oggi, con le sue oltre quattrocento pietre preziose e semipreziose incastonate nell’oro massiccio, costituisce un pezzo di inestimabile valore, un’eco del Medioevo in pieno XXI secolo e un’affermazione categorica dell’amore degli inglesi per la regalità.
Legame reale tra il Cielo e la terra
Ci sarebbero innumerevoli altre corone da considerare. Poiché i limiti di queste righe non ci consentono di farlo, invitiamo il lettore a rivolgere, in definitiva, la sua attenzione a quella che è forse la più bella di tutte: la Corona Imperiale d’Austria. Realizzata nel 1602 da Rodolfo II come gioiello di uso personale, passò a far parte del tesoro del Sacro Impero Romano-Germanico e, dopo il Congresso di Vienna, di quello dell’Impero Austriaco.
Ricchissima ma dalle linee soavi – si direbbe quasi “paterne” –, la sua base è costituita da un anello d’oro con otto fioroni, ornato di perle e pietre preziose. Dal suo interno si eleva una mitra divisa in due parti, realizzata in oro, perle e splendidi smalti, che esprime il carattere sacrale dell’Impero Austriaco, prosecuzione del Sacro Impero Romano-Germanico. Due diademi tempestati di otto diamanti completano l’insieme.
Il suo ornamento più bello, però, è lo zaffiro che la sormonta, il cui blu scintillante sembra concentrare l’immensità del firmamento e ci ricorda la dimora celeste. Attraverso la corona, simbolo di regalità, il Cielo viene presentato unito alla terra dalla croce, ricordando l’origine divina del legittimo potere temporale.
Una corona imperitura
Il punto che forse sintetizza la bellezza di tutte le corone considerate in questo articolo, più prezioso di qualsiasi gioiello di cui sono composte, è senza dubbio il loro simbolismo. «Mirabile, legittimo, profondo potere dei simboli!», rifletteva saggiamente il Dott. Plinio Corrêa de Oliveira, «Solo chi non ha l’intelligenza per comprenderlo, o chi vuole distruggere le alte realtà che questi simboli esprimono, lo nega. E guai a quel Paese in cui – qualunque sia la forma di governo […] – l’Opinione Pubblica si lasci fuorviare da volgari demagoghi, divinizzando la trivialità e simpatizzando solo con ciò che è banale, inespressivo, comune».3
E non possiamo non considerare l’aspetto più alto di questo simbolismo. Tutti noi, battezzati, siamo principi eredi del più grandioso dei regni: quello del Cielo, che Nostro Signore Gesù Cristo è venuto a predicare al fine di elevare il nostro sguardo all’eternità. Sic transit gloria mundi… Anche se innegabilmente belle e simboliche, le corone che abbiamo qui menzionato sono state o saranno dimenticate; hanno segnato gli annali della Storia, ma finiranno alla fine dei tempi. Per ogni uomo, però, è riservata «la corona della gloria che non appassisce» (1 Pt 5 ,4), che il Supremo Pastore concederà a coloro che saranno stati fedeli fino alla morte.
A noi, pertanto, è rivolta la raccomandazione del Libro dell’Apocalisse: «Tieni saldo quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona» (Ap 3, 11)! ◊
Note
1 I dati storici contenuti in questo articolo sono basati sull’opera: CHAFFANJON, Arnaud. La merveilleuse histoire des couronnes du monde. Paris: Fernand Nathan, 1980.
2 Cfr. ROHRBACHER, René François. Vidas dos Santos. São Paulo: Editora das Américas, 1959, vol.XV, pp.433-437.
3 CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Têm os símbolos, a pompa e a riqueza uma função na vida humana? In: Catolicismo. Campos dos Goytacazes. Anno VII. N.82 (ottobre, 1957); p.5.