Forse nulla attrae tanto i sensi umani quanto stare in riva al mare a guardare i movimenti dell’acqua. L’elegante ondeggiare delle onde sembra esprimere diverse meraviglie: a volte esse sono piccole e, sorridendo con grazia, manifestano leggerezza; a volte sono imponenti, si infrangono con alterigia sembrando sfidare il cielo stesso…
Ma il mare non è mai solo. Ci sono altri elementi che lo accompagnano e lo completano, formando un quadro che rende il paesaggio invitante per qualsiasi tipo di riflessione. Il vento, responsabile dell’avanzamento e dell’arretramento delle acque; la sabbia, che si lascia costantemente osculare con venerazione dalle onde; la vegetazione, gli uccelli, i pesci; tutto, insomma, è ordinato in un’armonia perfetta!
Ora, se Dio ha stabilito nella natura questa dipendenza tra creature di regni diversi, può l’uomo, immagine vivente del Creatore (cfr. Gn 1, 26-27), realizzare da solo la sua vocazione?1
Maestro e discepolo: due persone, un’unica scena
Nella convivenza umana esistono differenti gradi di vitalità grazie ai quali una persona può facilmente stimolare o influenzare un’altra, dando come risultato una dipendenza reciproca. Questo è ciò che accade nei rapporti di un insegnante con un apprendista o di un maestro con il suo discepolo, in cui il superiore ha bisogno dell’inferiore per trasmettere le sue conoscenze e, in un certo modo, per portare a termine la propria missione.
È quanto accadde nell’Italia della metà del XIII secolo a un rinomato artista di nome Giovanni Cimabue. Incontrando un giovane pastore noto come Giotto di Bondone e scorgendo in lui un meraviglioso dono artistico, Cimabue iniziò a trasmettergli le sue conoscenze ed entrambi diedero vita a una nuova scuola d’arte che ha attraversato i secoli. Erano due persone con un’unica vocazione; le loro vite facevano parte di una stessa scena, formavano un’unica opera nel piano divino della creazione.
Il silenzio che aleggia sulle loro vite ci induce a un’osservazione attentissima dell’eredità lasciata dal loro talento. Le loro opere artistiche sono un patrimonio che la Cristianità ha ricevuto e ha saputo custodire, rapita dalla venerazione. Più che un ricordo del tardo Medioevo, per una misteriosa azione della grazia divina, le opere di Giotto trasmettono all’anima benedizioni di candore e innocenza, riflesse, ad esempio, negli incantevoli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, permettendoci di assaporare l’atmosfera in cui viveva l’Europa cristiana all’imbrunire della sua infanzia spirituale.
Un tesoro artistico…
Costruita sotto l’influenza ellenica, la cappella del palazzo della famiglia Scrovegni divenne famosa grazie a Giotto. Il luogo, infatti, ospita la più grande eredità che è rimasta della sua opera: oltre cento affreschi che raffigurano, alla luce del Vangelo e della pietà del tempo, episodi della vita di Maria Santissima e di Gesù Cristo, a partire dai loro antenati nell’Antico Testamento.
Un aspetto che muove l’interesse degli artisti per gli affreschi di Giotto è il fatto che egli modificò la tradizione delle rappresentazioni medievali allo scopo di dare maggiore drammaticità e realismo alle scene, introducendo le caratteristiche del classicismo rinascimentale italiano, di cui è considerato un precursore.
Nella Cappella degli Scrovegni, le Allegorie delle virtù e dei vizi attirano l’attenzione a causa della loro forte espressione simbolica. Si tratta di una rappresentazione che oppone le virtù della prudenza, della fortezza, della temperanza, della giustizia, della fede, della carità e della speranza, ai vizi della disperazione, dell’invidia, dell’infedeltà, della collera, dell’incostanza e della stoltezza, con una vivacità drammatica innovativa per l’epoca.2
Come era consuetudine nella decorazione del periodo medievale, Giotto realizzò un magnifico affresco del Giudizio Universale, nel quale c’è un dettaglio curioso perché viene messo in risalto un certo personaggio: si tratta di Enrico Scrovegni, proprietario del palazzo e responsabile di aver fatto decorare l’ambiente all’artista. Egli appare circondato da Angeli mentre, in ginocchio, consegna il modello della cappella alla Santissima Vergine. La scena si svolge ai piedi di una eloquente croce che separa buoni e cattivi; la salvezza dalla dannazione eterna.
…o una catechesi?
Non sarebbe azzardato, dunque, affermare che in questa piccola cappella Giotto ebbe una discreta preoccupazione di fare del bene spirituale alle anime, un desiderio che non si limitava solamente alla sua epoca.
L’opera, nel suo complesso, fa riferimento al mondo soprannaturale, all’invisibile e all’eterno, sembra persino ridurre la distanza tra il Cielo e la terra. Tuttavia, lo fa in modo semplice, come si può vedere nelle pittoresche rappresentazioni dei personaggi, nei gesti, nei sentimenti e negli atteggiamenti di alcuni di essi, tutto in una perfetta armonia e in un piacevole gioco di colori e forme, molto diverso dal mondo materialista, pragmatico e sbiadito dei nostri giorni.
Per Giotto la radicalità sta nei colori, che usa con maestria, rivestendo le figure di luce, con aspetti diafani e virginali. Nei suoi affreschi anche gli animali evocano, in una candida realtà, l’innocenza e la freschezza dell’anima medievale.
Nella presentazione di Maria, due contrasti
Dal punto di vista artistico, la sua opera è un autentico tesoro e delle sue illustrazioni la Chiesa ha beneficiato in tutte le epoche. Esaminiamo, ad esempio, l’affresco della presentazione della Madonna al Tempio. Presenta una unzione e un valore simbolico tali da farci passare facilmente dalla semplice osservazione alla riflessione, e dalla riflessione alla contemplazione.
Cosa ci dicono i personaggi raffigurati? Sant’Anna e San Gioacchino, entrambi in età avanzata, consegnano Maria Santissima al sacerdote, con un gesto di profonda umiltà, adempiendo alla promessa che avevano fatto.
Tuttavia, secondo il Dott. Plinio, è possibile vedere negli sguardi circostanti lo scandalo di coloro che in precedenza avevano parlato contro la coppia perché non poteva avere figli, e il contrasto tra il loro scetticismo e la purezza di Colei che sarebbe stata la Madre del Messia.
Giuda di fronte a Gesù Cristo: un capolavoro
Già nell’affresco che rappresenta il bacio di Giuda, «una delle cose più stupefacenti che un pennello umano abbia mai dipinto»,3 vediamo l’opposizione tra la Verità Incarnata e il più esecrabile dei tradimenti. In questa scena Nostro Signore appare serio mentre guarda verso l’infame che, approfittando dell’intimità che aveva in quanto Apostolo, abbraccia il Redentore e con un bacio Lo consegna ai carnefici.
È chiaro che Giotto ha voluto rappresentare in Gesù Cristo il vertice di tutte le qualità intellettuali e morali, e in Giuda il simbolo di tutte le abiezioni. E quanto ci è riuscito!
Un’anima indorata dalla grazia
In sintesi, Giotto è stato il pittore della trasparenza di una grazia divina, il che ci porta a credere che questa grazia abbia prima illuminato la sua anima, come “indorando” la sua interiorità, per poi riflettersi nei suoi affreschi.
Forse nell’arte di Cimabue, completata e perfezionata dal senso del meraviglioso di Giotto, l’Italia manifestò una certa nostalgia per il “paradiso perduto”, per l’innocenza medievale che dava serietà e pace alla vita di tutti i giorni, ma che doveva ancora maturare attraverso la sofferenza – forse rifiutata da coloro che avrebbero dovuto abbracciare la croce…
Così, le opere di Giotto possono essere paragonate a un “trattino” che collega un’epoca all’altra, portando nel mondo rinascimentale la nostalgia del Medioevo. Il talento di questo celebre pittore ci ha lasciato in eredità questo desiderio indefinito ma veemente di andare in Cielo: una nostalgia che tocca le corde più profonde dell’anima umana e che può essere soddisfatta unicamente da Dio. ◊
Note
1 Il presente articolo è stato elaborato sulla base di quattro presentazioni orali tenute dal Dott. Plinio Corrêa de Oliveira negli anni ‘80 e parzialmente trascritte in: CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Obra-prima da piedade católica. In: Dr. Plinio. São Paulo. Anno V. N.46 (gennaio 2002); pp.31-34.
2 Cfr. BELLOSI, Luciano. Giotto. Firenze: Scala, 1981, p. 52.
3 CORRÊA DE OLIVEIRA, op. cit., p.35.