La grandezza del fallimento

È possibile che il fallimento sia un modo scelto dal Creatore per ripristinare la grandezza originaria dell’umanità?

XXI Secolo. Epoca in cui l’esistenza dell’uomo è diventata in tutto più facile a causa dei travolgenti progressi della scienza e quasi tutti i suoi bisogni sono soddisfatti in modo semplice e veloce. C’è, però, una fatalità che la tecnologia, per quanto avanzata sia, non riesce ad evitare: il fallimento! È impossibile trovare un uomo che non abbia fallito in qualche momento della sua vita.

Tuttavia, questa parola può provocare paura, e persino panico… In un mondo che ha dimenticato Dio, è difficile capire che la disgrazia, la sofferenza e le prove possono essere un mezzo da Lui usato per manifestare il suo amore per noi.

Ma perché il Creatore ha scelto questo strumento? Quale beneficio può trarre l’uomo dalle contrarietà? È davvero possibile che ci sia grandezza in qualcosa di così ripugnante per la nostra natura, come il fallimento?

La grandezza originaria del primo uomo

Per chiarire questa questione, risaliamo all’inizio dell’umanità. Dio aveva creato l’uomo affinché regnasse (cfr. Gn 1, 26). Lo intronizzò nell’Eden (cfr. Gn 2,8) al fine di governare tutti gli esseri, i quali erano soggetti ai suoi ordini. Ora, possiamo ipotizzare che Adamo percepisse questa armonia imperiale dentro di sé e contemplasse nella natura il riflesso della generosa magnificenza dell’Onnipotente. Tale sensazione interiore produceva nel suo spirito un legittimo piacere per la grandezza che Dio aveva posto in lui. Si sentiva come il monarca minore dellordine della creazione e si sentiva confortato dall’essere un’irradiazione di questo attributo divino.

Da dove derivava la grandezza di Adamo? Dall’unione che possedeva con Dio, perché era stato creato a sua immagine e somiglianza (cfr. Gn 1, 26). Per questo, la magnificenza aveva una relazione molto intima con la sua vocazione, poiché egli rappresentava, in modo speciale, la grandezza dell’Altissimo nell’universo materiale.

Immaginando un processo di decadenza

Contemplando la predilezione che il Signore aveva posto nel primo uomo e vedendo come questi finì per offenderlo, è difficile non ammettere che c’era stato un processo precedente che aveva predisposto Adamo al peccato. Convivere intimamente con Dio tutti i giorni e poi improvvisamente cadere in una colpa gravissima, non sembra ragionevole. Come si verificò questa decadenza?

La Scrittura è piuttosto succinta nella descrizione del peccato originale e non fornisce alcuna indicazione su come il primo uomo avrebbe iniziato il suo declino. Siamo quindi liberi di avanzare ipotesi, basate sui vari processi di decadenza spirituale catalogati nel corso della Storia. Potremmo ipotizzare, ad esempio, che Adamo abbia attraversato una notte oscura dello spirito.1

Adottando questa ipotesi, dovremmo immaginare che il padre di tutta l’umanità vagasse per il Paradiso, pregando e chiedendo a Dio che Si manifestasse. Tuttavia, quanto più implorava, tanto meno sembrava essere ascoltato, perché il Creatore non scendeva più al calar paradisiaco della sera per conversare (cfr. Gn 3, 8), non gli parlava più al cuore, nemmeno attraverso ispirazioni sensibili della grazia. Non c’era nulla che potesse consolare la sua anima. Adamo era completamente disfatto, disorientato in mezzo alla sua afflizione e senza sapere a chi rivolgersi. Dio lo aveva “abbandonato”!

Non avendo più il conforto di una convivialità sensibile con il suo Signore, l’uomo si poneva a cogliere la “fragranza” della presenza che Egli aveva lasciato nella natura. La creazione era come un album fotografico che gli ricordava Dio e le innumerevoli grazie che aveva ricevuto nel suo rapporto con Lui. In questo modo cercava, in un certo senso, di superare la tremenda sensazione di isolamento che stava vivendo.

Come il demonio avrebbe approfittato di questo

Il demonio – da eccellente psicologo – diagnosticò lo stato in cui si trovava il primo uomo e, senza dubbio, cercò di trarne vantaggio.

Nella notte oscura dello spirito, Adamo si dimenticò del rapporto con Dio e, sentendosi abbandonato, iniziò a condurre una vita indipendente dal Creatore
La creazione di Adamo – Museo del Duomo di Milano

Lavorò sui suoi sensi esterni e interni con l’intento di acuire la sua sensibilità riguardo alle meraviglie dell’ordine della creazione. All’inizio deve aver abbagliato Adamo enfatizzando gli aspetti naturali delle bellezze del Paradiso, relegando Dio Creatore a un’attenzione secondaria, per poi, col passare del tempo, far sì che Lo mettesse ai margini delle sue considerazioni. Fu quello che probabilmente accadde… Il nostro progenitore non ammirava più nel mondo i riflessi divini, ma si compiaceva degli splendori di ogni creatura in se stessi, come se quelle qualità riflettessero lui, l’uomo, e non Dio.

Il terreno era pronto affinché il demonio gli facesse fare un altro passo in direzione del frutto proibito.2

L’autosufficienza porta alla mediocrità

Adamo iniziò a vivere una routine indipendente da Dio, un “ateismo pratico”, potremmo dire. Credeva in Dio e Gli rivolgeva anche preghiere, ma non Lo aveva presente nelle sue faccende durante la giornata, non ricordava le grazie ricevute, alimentava sempre più la fiducia in se stesso che gli dava la sensazione di padronanza di sé, di forza e di superiorità.3 Insomma, aveva trovato una posizione intermedia tra il suo rifiuto di Dio e la grandiosa vocazione che possedeva. In una parola, era caduto nella mediocrità.4

Il demonio presentò il frutto proibito ad Adamo solo quando si rese conto che egli si era abituato a uno stato di predisposizione al peccato, ossia, di fiducia in se stesso, di mancanza di vigilanza e di visione naturalistica.

La tentazione fu “fatta su misura” per Adamo e il frutto proibito era la “consolazione” che il demonio offriva alla sua prova e la risposta ai suoi desideri: «Diventerete come Dio» (Gn 3, 5). In altre parole, si trattava della consumazione di una vita in cui Adamo non avrebbe più avuto bisogno di Dio. Bastando a se stesso, sarebbe diventato il modello e il signore della creazione. E la conclusione della storia è nota…

Qual è stata la colpa di Adamo?

In cosa è consistito dunque il peccato di Adamo?

Sarebbe ridicolo credere che, per il semplice fatto di aver mangiato un frutto, tutta l’umanità si sia vista chiudere le porte del Cielo. È chiaro che dietro c’è un peccato più profondo. L’atto materiale, rappresentato dall’ingestione dell’alimento proibito, fu una mera conseguenza di questa disposizione precedente.5

Non c’è dubbio che, se «il principio di ogni peccato è l’orgoglio» (Sir 10, 15), fu questo, in ultima analisi, la causa del fallimento del nostro primo padre. Questa, del resto, è un’opinione comune tra i Padri della Chiesa.6 Tuttavia, c’è un altro aspetto da sottolineare in questo capitolo dell’origine dell’umanità.

Quando Adamo acconsentì all’esecrabile offesa a suo Padre, completò il processo di oblio del Creatore che stava già percorrendo: rifiutò esplicitamente di essere figlio e schiavo, per essere signore; rifiutò di essere assunto dalla grandezza di Dio, per esibire la sua falsa grandezza; rifiutò la Luce increata, per manifestare lo splendore personale. Volle porsi sullo stesso piano dell’Altissimo, appropriandosi dei doni ricevuti, per vivere della magnificenza che pensava di possedere. Pertanto, formalizzò la sua presunta indipendenza da Dio per seguire le sue proprie vie.7 Ora, abbiamo visto all’inizio di questo articolo che la grandezza di Adamo derivava dal fatto che egli era propriamente un vicario del Creatore nell’universo. Pertanto, rifiutando questa unione con il Signore, il suo peccato attentò direttamente contro la grandezza.

La grandezza di Dio si manifesta, soprattutto, nella disgrazia, nel fallimento, nell’apparente sconfitta. L’esempio massimo di questa realtà è Nostro Signore crocifisso, ma poi vittorioso
Crocifisso della Basilica della Madonna del Rosario, Caieiras (Brasile)

La grandezza a cui siamo tutti chiamati

Sarebbe possibile dividere l’umanità sulla base di questo criterio: quelli che riconoscono il proprio nulla e si lasciano assumere interamente dalla Grandezza increata che è Dio; e quelli che la rifiutano per realizzare la loro propria grandezza.

Tutti gli uomini sono chiamati a essere grandi, secondo le loro condizioni e secondo la vocazione di ciascuno. La grandezza non è un privilegio dei monarchi o di quelli chiamati a svolgere una missione prestigiosa nella società. Possederla non si limita a indossare abiti costosi e a partecipare a cerimonie pompose; non si traduce in favolose conquiste, ottenute da generali intrepidi alla testa di eserciti invincibili.

La grandezza acquista la sua piena statura solo nella misura in cui l’uomo si unisce a Dio. Ogni gloria umana, al di fuori di questa relazione divina, è un effimero fuoco d’artificio che in un primo momento causa impressione, ma che il vento degli eventi fa sparire dai cieli della Storia.

La grandezza di Dio è perenne e si manifesta, soprattutto, nella disgrazia, nel fallimento, nell’apparente sconfitta. Molte volte, ciò che appare un disastro agli occhi umani costituisce un trionfo agli occhi divini, «perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 25). L’esempio massimo di questa realtà lo troviamo in Nostro Signore Gesù Cristo, la Grandezza incarnata, rifiutata e crocifissa, ma poi vittoriosa.

Possiamo dire che il Creatore scelse il fallimento come mezzo per ripristinare e recuperare la grandezza che l’uomo possedeva in origine, perché è nel crogiolo dell’olocausto che si rivela la caratura dell’anima umana, è nel sussulto della sofferenza affrontata con magnanimità che risplende la vera grandezza.

Nella nostra debolezza si manifesta la grandezza

Inoltre, quando si presenta la debolezza umana, si creano le condizioni favorevoli per la manifestazione della grandezza soprannaturale, come afferma San Paolo: «si semina ignobile e [il corpo] risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza» (1 Cor 15, 43). Per questo, è di enorme beneficio per noi percepire la nostra debolezza, perché in questo modo ci prepariamo a riconoscere più facilmente che le opere grandiose che facciamo non derivano dalle nostre qualità personali, e nemmeno dalle virtù che possiamo praticare, ma da una partecipazione all’onnipotenza di Dio, come dichiara ancora una volta l’Apostolo: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2 Cor 12, 9).

Ogni uomo porta dentro di sé la tendenza – intensificata dagli effetti del peccato originale – ad aggrapparsi a ciò che possiede e, purtroppo, anche a ciò che non possiede, ma che pensa di avere. E questa concezione distorta si manifesta frequentemente nella vita spirituale, anche tra i più ferventi. Si concepisce un metodo, si applica lo sforzo e, come risultato, si ritiene possibile raggiungere la santità per merito proprio, si potrebbe quasi dire “naturale”. La preghiera, secondo questa concezione, entra nella “composizione” del progresso nella virtù come un elemento in più tra tanti altri. Ora, per rimediare a questo “virus”, Dio permette fallimenti monumentali che fanno capire alla persona che senza di Lui non può fare nulla (cfr. Gv 15, 5).

Per questo motivo, la nostra vita sulla terra, per ciascuno secondo la sua misura, è un’alternanza di trionfi e fallimenti, affinché, una volta diminuiti i rischi di appropriarsi dei doni divini e create le condizioni per riconoscere la nostra propria debolezza, possiamo servire da strumenti efficaci per i grandiosi interventi di Dio

 

Distintivo glorioso delle anime veramente fedeli

Il connubio virginalissimo di Maria e Giuseppe consisteva, soprattutto, in uno scambio di cuori in cui le grazie che abitavano nell’uno erano vissute dall’altro, permettendo loro di condividere gli stessi aneliti. Mentre il Glorioso Patriarca traeva profitto dalla fonte di grazie esistente nel Cuore Immacolato della Vergine, Ella attingeva dal suo sposo le forze, la determinazione e la fiducia che pulsavano nel suo igneo cuore.

La grandezza di un’anima non si misura tanto dai successi ottenuti nelle sue imprese, ma dalla serena umiltà con cui sottomette la sua volontà ai disegni divini, e dalla determinazione di andare avanti con fiducia, nonostante gli stessi fallimenti, perché li considera il modo migliore per ottenere la vittoria di Dio. La serenità di fronte alla sventura è il distintivo glorioso delle anime veramente fedeli.

La Madonna e San Giuseppe sono l’augustissimo esempio di questa fedeltà, modestia e sublime disposizione a compiere la volontà divina, anche quando essa richieda di abbracciare il dramma e la sconfitta. E seguiranno le orme della Santissima Coppia solo coloro che saranno disposti a seguire questo cammino con generosità, pazienza e costanza, accettando tutti i fallimenti e le assurdità che il Signore vorrà mandare sulla loro strada. Il fallimento che Dio chiede oggi, preannuncia sempre la grande vittoria di domani. Coloro che, nel freddo e nell’oscurità della notte delle prove e delle lotte interiori, sapranno mantenere acceso il fuoco dei loro cuori con il calore della fiducia e la luce della certezza della vittoria, saranno degni di contemplare, alle prime luci dell’alba, il bagliore splendente della Stella del Mattino.

CLÁ DIAS, EP, João Scognamiglio.
Maria Santissima! Il Paradiso di Dio rivelato agli uomini.
Roma: Araldi del Vangelo, 2023, V.II, p.334-335

 

 

Note


1 Si tratta di una prova a cui vengono sottoposte anime appositamente chiamate, che Dio intende elevare alle più alte vette della santità e dell’unione con Lui (cfr. ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología de la perfección cristiana. 4.ed. Madrid: BAC, 1962, p. 409). San Giovanni della Croce fornisce una descrizione dettagliata delle terribili sofferenze spirituali che la accompagnano. Ecco un piccolo esempio: «L’anima sente molto intensamente l’ombra della morte, i gemiti della morte e le pene dell’inferno, fino a sentirsi senza Dio, castigata, abbattuta e indegna di Lui» (SAN GIOVANNI DELLA CROCE. Noche oscura. L.II, c.6, n.2. In: Obras Completas. 2.ed. Madrid: BAC, 2009, p.530).

2 Riguardo alla disposizione d’animo che precedette il peccato di Adamo, Sant’Agostino si espresse con queste parole: «Il principio di ogni peccato è la superbia. E cos’è la superbia se non l’appetito di una glorificazione perversa? La glorificazione perversa non è altro che lo spirito che abbandona il principio a cui deve essere unito e si fa ed è, in un certo modo, un principio per se stesso» (SANT’AGOSTINO. La Ciudad de Dios. L.XIV, c.13, n.1. In Obras Completas. 6.ed. Madrid: BAC, V.XVII, 2007, p.101).

3 «Egli commise, diremmo oggi, un peccato di ‘naturalismo’; non volendo ricevere da Dio la norma della propria vita, pensò di poter bastare a se stesso (autosufficienza), di vivere liberamente e felicemente la sua vita» (BARTMANN, Bernardo. Teologia Dogmática. São Paulo: Paulinas, 1962, vol.I, p.450).

4 «La magnanimità è una virtù che porta a intraprendere opere grandi, splendide e degne di onore in ogni genere di virtù. Spinge sempre al grandioso, allo splendido, alla virtù eminente; è incompatibile con la mediocrità» (ROYO MARÍN, op. cit., p. 547).

5 «Non si arriverebbe a un’opera cattiva, se una volontà cattiva non l’avesse preceduta» (SANT’AGOSTINO, op. cit., p. 101).

6 Cfr. BARTMANN, op. cit., p.448.

7 San Tommaso d’Aquino spiega che la superbia di Adamo è consistita nel voler assomigliare a Dio in due modi. Uno di questi corrisponde a quello che abbiamo presentato: «Il primo uomo peccò anche desiderando di assomigliare a Dio, nel suo proprio potere di agire, affinché, in virtù della propria natura, potesse raggiungere la beatitudine» (SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.163, a.2).

 

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