Il comando, inteso in senso stretto, è il potere della persona investita dell’autorità religiosa o civile – sia essa militare o semplicemente amministrativa – che le dà il diritto di dire a un subalterno: «Pensa in questo modo, perché è così che si deve pensare!», «Fai in questo modo, perché è così che si deve fare!»; oppure «Non pensare in quell’altro modo, perché è sbagliato!», «Non fare in quell’altro modo, perché è sbagliato!».
Esiste quindi una scala di poteri, per ordinare il pensiero o l’azione, che fa sì che l’individuo su cui viene esercitato il comando modifichi il corso di ciò che pensa o fa, in base a ciò che l’autorità dispone.
Ostacoli della natura umana all’obbedienza
Nella natura umana, tuttavia, ci sono molti ostacoli all’obbedienza. Spesso l’uomo non vuole obbedire perché ha una tendenza innata, sfigurata dal peccato originale, a fare ciò che egli intende di dover fare e non ciò che l’altro gli comanda. Per questo motivo, quando non comprende un ordine o non è d’accordo con esso; quando si tratta di un ordine doloroso, che lo obbliga a fare un sacrificio che egli non ritiene necessario; quando il sacrificio è necessario ma lo indispone; o per tutti questi motivi insieme, l’uomo è colto da indignazione e tende a sollevarsi contro l’autorità, dicendo: «Vi farò vedere io come funzionano le cose. Non obbedirò».
Si configura allora una situazione malata e pericolosa: una crisi nei rapporti tra chi comanda e chi obbedisce. In questo caso, è necessario che l’autorità comprenda che questa situazione può avere esiti imprevisti. Se comanda con uno stile duro e aggressivo – «Ti sto obbligando! Tieni bassa la testa!» – è possibile che il problema si aggravi e che il sottoposto, offeso dal rimedio applicato, sia portato a un’esplosione, a una fuga, a una rottura o addirittura a una aggressione.
Un tale risultato non è la vittoria, ma il fallimento dell’autorità.
In generale, l’ordine viene impartito a beneficio del subalterno
Ciò si comprende tanto meglio quando, in generale, l’ordine viene impartito a beneficio di colui che obbedisce, anche se si tratta per lui di un sacrificio.
Ad esempio, l’autorità invia un soldato in guerra. In apparenza non è per il suo bene, perché potrebbe tornare menomato, mutilato o addirittura morire. Tuttavia, nell’ordine naturale delle cose, quando un Paese viene aggredito, tutti i membri validi di quella nazione devono ascoltare l’appello dell’autorità: prendere le armi e combattere. Perché, altrimenti, il Paese scompare. Ciò è espresso molto bene nel Libro dei Maccabei (cfr. 1 Mac 3, 59): è meglio per un uomo morire, che vivere in una terra devastata e senza onore, cioè in una terra in cui coloro che la popolano non hanno il senso dell’onore, il senso della resistenza fino al sangue per mantenere alta la bandiera nazionale e, soprattutto, il sacrosanto vessillo della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, patria delle anime di tutti i viventi. Per questo motivo, chi riceve l’ordine «Vai a combattere!» è beneficiato.
Eppure, molte volte non lo intende così – è difficile immaginare che tutti gli uomini lo comprendano con facilità, soprattutto nei momenti di pericolo – e può ribellarsi.
Se ciò accade, l’autorità – che comanda per il bene comune e per il bene dell’individuo – otterrà come risultato che il male si insedierà nella sua anima. E la sua stessa diserzione sarà un male per il Paese, perché ogni soldato che diserta sottrae alla nazione una forza che le appartiene. Il risultato è il fallimento dell’autorità.
Il rapporto padre e figlio nel comandare e nell’obbedire
Di fronte al rifiuto o alla riluttante accettazione di chi obbedisce malvolentieri, in modo rilassato, “minimalista”, facendo il meno possibile, l’autorità ha un problema morale e psicologico che deve risolvere.
Qual è il problema?
È come agire sull’anima di quel sottoposto affinché cambi idea, affinché faccia ciò che deve e non si ribelli alla volontà del superiore; e che, al contrario, si crei un consenso tra lui e l’autorità, e così il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce raggiunga il culmine della sua normalità, che è il rapporto padre-figlio.
Un buon padre che comanda un buon figlio è l’apice della disciplina. E colui che esercita l’autorità deve fare tutto il possibile per stabilire questo tenore di relazioni con chi è sottoposto.
Come raggiungere questo obiettivo?
In primo luogo, il superiore deve farsi capire in tutti i modi – dico tutti i modi di proposito – in modo che il subalterno sia in una disposizione tale che non sorgano in lui i capricci del non conformismo, ma che, al contrario, abbia la gioia e una buona disposizione d’animo nel fare ciò che deve fare.
La collaborazione della bontà con la forza
In una cartolina della Cattedrale di Santo Stefano a Vienna, fotografata di notte, si nota la cattedrale fortemente illuminata, composta da due corpi completamente distinti: una torre enorme ma molto delicata – snella e robusta allo stesso tempo – e, accanto ad essa, un edificio molto più basso, come se fosse appoggiato alla torre imponente della cattedrale. Si ha l’impressione di una casa di famiglia appoggiata a una fortezza, o di una moglie accanto al marito. Il marito è la torre: forte, energico, battagliero. La moglie è il secondo edificio: delicata, madre di famiglia amorevole.
La collaborazione della bontà con la forza, per dare l’immagine dello stato temperamentale di chi esercita l’autorità, si può vedere in questo simbolo della Chiesa che è l’autorità delle autorità. Senza di essa, nessuna autorità ha il fondamento necessario né prevale per il tempo necessario.
L’autorità di chi rappresenta il diritto, la bontà, la delicatezza sarebbe troppo fragile per sussistere senza la forza. Ma la forza sarebbe troppo brutale senza questa dolcezza. La coniugazione di entrambe le virtù fa sì che il sottoposto, nelle sue ore buone, si impregni di dolcezza e, nelle sue ore difficili, abbia i suoi “bernoccoli” dell’anima raschiati come con la pialla dall’azione della forza. E così si stabilisce l’equilibrio delle relazioni umane.
Cerimonia di incoronazione della Regina d’Inghilterra
Questo modo di intendere l’autorità fece sì che nell’epoca d’oro delle monarchie cattoliche in Europa, ci fosse, in tutte le cerimonie del trono, un misto di maestà e di forza.
Come reminiscenza di esse abbiamo, ad esempio, l’incoronazione della Regina d’Inghilterra.
Nel corpo della chiesa, si poteva vedere il clero anglicano con paramenti che assomigliavano vagamente a quelli della Chiesa Cattolica e quindi vagamente belli. Tribune speciali accoglievano i nobili, tutti con le corone corrispondenti ai rispettivi titoli nobiliari. Proprio di fronte all’altare c’erano i troni dove si sarebbero seduti la nuova regina e il suo sposo; a destra e a sinistra i posti a sedere per i membri della casa reale inglese. E figuravano inoltre i membri delle case reali di altri Paesi europei, accorsi per l’incoronazione.
La cerimonia fu bellissima e un numero enorme di persone del popolo vi assistette all’interno della vasta Abbazia di Westminster.
Ci fu il lungo corteo che accompagnava la Regina da Buckingham Palace fino all’Abbazia. Le figure principali della cerimonia sfilarono nelle tradizionali vetture dorate con dipinti, finestre di cristallo, pennacchi e lacchè che indossavano cappelli a tre tese.
Lungo tutto il percorso si potevano vedere i principi europei con le loro bellissime uniformi e le loro decorazioni. C’erano anche maharaja, sultani e ogni sorta di potentati dell’ancora misterioso mondo orientale, alcuni dei quali seduti nelle carrozze che si erano portati dietro.
Poi passarono gli uomini eminenti, come Churchill ed Eden, che avevano salvato l’Inghilterra durante la Seconda Guerra. L’entusiasmo era enorme.
Qualcuno dirà: «A cosa serve tutto questo?»
Per ungere – nel senso vero e proprio del termine, cioè, per ricoprire con l’olio della comprensione, dell’ammirazione, dell’amore corrispondente – le relazioni tra il re e la regina, da una parte, e il popolo dall’altra; affinché il popolo comprenda cosa sono un re e una regina, cosa significhi comandare e obbedire. Ma anche affinché ci sia questa comprensione da parte del re e della regina, nel verificare quell’entusiasmo che giungeva loro da ogni parte, dagli alti edifici di Londra pieni di persone alle finestre adorne, che li salutavano al loro passaggio. Il popolino riempiva le strade, anche dei quartieri più poveri, piazzato da tutte le parti, persino sui piloni, sui tetti delle case, e applaudiva, applaudiva, applaudiva. E i monarchi accennavano il saluto.
Amore e ammirazione
Cosa significava questo duetto?
Significava: «Noi ci amiamo, comprendiamo che cosa è ognuno per l’altro. Il principale fondamento delle nostre buone relazioni consiste nell’amore reciproco, e il motivo per cui ci amiamo è il fatto che ci intendiamo, ci vogliamo bene e ci ammiriamo a vicenda».
Dove l’amore ammira, l’ammirazione ama, la buona intelligenza si stabilisce; e dove avviene questa visione reciproca, questo mutuo intendimento, le istituzioni diventano solide. La base di queste buone relazioni è l’amore e, in secondo luogo, il timore. Si amano perché si comprendono e si comprendono perché hanno saputo mostrarsi l’uno all’altro nel loro migliore aspetto. E questo intendimento dura per un intero regno.
Diciamo che gli applausi all’inizio di un regno continuano fino alle campane a morto della sua fine. E all’inizio del nuovo regno, tutti si preparano a nuovi applausi e a nuove campane a morto, quando finirà. È una fonte continua di amore, di ammirazione, di speranza quando nasce un regno; di tristezza quando muore, di affetto in tutte le occasioni. Questo rende la nazione forte, come una torre innalzata in mezzo a una pianura; nulla può attentare contro di lei.
Questa impostazione, però, non deve esistere solo nei grandi giorni, ma anche nella vita quotidiana. Un re che si presenta con un tono regale solo all’incoronazione, e che nella vita quotidiana ha un modo di fare mezzo rammollito, si sta suicidando e sta distruggendo passo dopo passo ciò che ha costruito il primo giorno del suo regno.
Un regno è una incoronazione continua, una continua riaffermazione della corona, da parte del re, della regina e dei membri della famiglia reale, ovunque essi si trovino. È lo stesso gorgoglio di reciproca comprensione, di mutua ammirazione, di reciproco amore, grazie al quale diventa molto facile per l’autorità comandare.
Il sacrificio della serietà permanente
Gli antichi esprimevano queste verità – che sto cercando di riassumere con la grandiosa scena dell’incoronazione – in mille maniere differenti nella vita quotidiana.
Per esempio, nel modo in cui in innumerevoli case di tutta la Cristianità, ancora a metà del XIX secolo, i genitori benedicevano sempre il cibo quando arrivava in tavola, tanto nelle case povere come nei palazzi. Il padre si sedeva per primo, poi tutti lo seguivano. Al suo fianco, su una sedia meno imponente ma in un luogo più accessibile, si accomodava la moglie. Essi presiedevano il pasto come presiedevano la vita della famiglia, nonché quella circolazione reciproca di amore e ammirazione che costituisce l’essenza del buon ordine delle cose.
Ciò presuppone da parte di tutti un sacrificio: quello della serietà permanente. Mai una battuta sciocca e volgare; soprattutto una battuta sconcia o immorale, au grand jamais, mai e poi mai.
Al contrario, c’era una conversazione affabile e piacevole, in cui ognuno raccontava le novità che conosceva e tutti si interessavano alla vita gli uni degli altri. Era una convivialità spensierata che, nei giorni di festa, continuava dopo il pasto per tutto il tempo che volevano. Poi la famiglia si disperdeva; ognuno andava nel suo angolo, ma con il cuore pieno d’amore.
Questa è la famiglia patriarcale, vera base della società. In essa vediamo bene cos’è il comando, perché il figlio poteva essere maggiorenne, ma quando il padre gli dava un ordine, obbediva volentieri perché si trattava della volontà di suo padre.
L’autorità non deve mai cercare vantaggi personali
In questa atmosfera di affetto e di comando si esercita l’influenza, che è l’atteggiamento dell’anima con cui qualcuno trasmette non solo una convinzione ma anche un sentimento, un amore; oppure comunica un odio per il male, che a volte è indispensabile saper mettere in pratica. Finché non ci sarà una combinazione armoniosa di odio e amore, nessuno avrà imparato a comandare.
Questo si applica anche alla vita quotidiana dei membri del nostro movimento, con i responsabili immediati dei servizi, delle sezioni o delle comunità in cui vivono, e con gli altri, fratello con fratello, pari con pari, vivendo allo stesso modo, con lo stesso principio di armonia proporzionale, di odio e di amore verso cose molto più grandi di noi, che ci superano completamente. Noi non stiamo insieme soltanto, né principalmente, perché ci amiamo, ma essenzialmente perché amiamo Colui per il quale siamo nati, amiamo Dio, la Madonna, la Santa Chiesa, amiamo il Regno di Maria. E noi ci amiamo perché amiamo insieme lo stesso ideale.
Questo ideale è così grande, così vero, così perfetto che per lui facciamo di tutto. Di conseguenza: facciamo tutto gli uni per gli altri e, nel momento in cui gli uni comandano e altri obbediscono, un particolare amore, una particolare solidarietà ci unisce.
Il subalterno deve avere il seguente pensiero: «Mi sta comandando per la gloria della Madonna. Obbedirò!» E il superiore: «Sto esercitando l’autorità per la gloria della Madonna. Con che cura, rispetto e affetto dirigerò quest’anima che è stata messa nelle mie mani affinché io eserciti il comando su di lei. Come saprò scegliere il momento e la parola appropriati, nel momento in cui vedo che questo mio figlio è in crisi! E sceglierò anche il tono di voce e lo sguardo opportuni, per aiutarlo a rialzarsi dalle rovine di se stesso e a ricostruirsi! È necessario che egli senta che ho più pena io per lui di quanta lui ne abbia per se stesso, che questo non porta all’indolenza ma allo stimolo. Nel frattempo, voglio che egli compia il suo dovere!».
Quando questo accade e il subalterno percepisce che l’autorità non cerca alcun vantaggio personale ma soltanto la vittoria della causa della Contro-Rivoluzione, allora essa avrà imparato a comandare. ◊
Estratto, con lievi adattamenti, da:
Dr. Plinio. São Paulo. Anno XV. N.174
(sett., 2012); pp.6-13