Vangelo della Festa della Trasfigurazione del Signore
In quel tempo,28b Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29 E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
30 Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31 apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. 32Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
33Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Egli non sapeva quel che diceva. 34 Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo».
36 Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. (Lc 9,28b-36).
I – La gloria del Signore si è manifestata
Se sfogliamo le pagine dei Santi Vangeli, vedremo che non risulta nessun’altra Trasfigurazione di Gesù oltre a quella del Tabor. Una volta risorto, è vero, apparve agli Apostoli nel Cenacolo (cfr. Mc 16, 14-18; Lc 24, 36-49; Gv 20, 19-29), a Santa Maria Maddalena (cfr. Mc 16, 9; Gv 20, 1-18) e alle Sante Donne (cfr. Mt 8, 9-10), ma nulla indica che abbia manifestato allora lo splendore descritto in questa grandiosa scena che ora contempliamo. Lì Egli rivelò un lieve bagliore della sua gloria, pur nascondendo la pienezza dello splendore che Gli è proprio. Quale interpretazione dare a questo fatto così sublime? Che relazione potrà avere con noi, duemila anni dopo? Questo brano si presta a molteplici approfondimenti, con utili implicazioni per la nostra vita spirituale.
A prima vista, non sembra avere un legame degno di nota con la vocazione del cristiano, ricordata opportunamente dal Concilio Vaticano II: «Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1, 1)».1 La perfezione non è appannaggio esclusivo dei chierici o dei religiosi, ma deve risplendere anche nei laici, affinché lo spirito cattolico possa permeare la realtà temporale. E per essere santi non è necessario compiere miracoli, né possedere doni straordinari o trasfigurarsi, come ha fatto Gesù. Già nell’Antico Testamento, Dio chiamava Israele alla santità: «Il Signore disse ancora a Mosè: ‘Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo’» (Lv 19, 1-2). Di conseguenza, non è facile stabilire una stretta relazione tra la generica vocazione dei figli di Dio alla santità e la Trasfigurazione di Nostro Signore, che è un fenomeno miracoloso. Esaminiamo più da vicino la questione.
Tre testimoni scelti
In quel tempo,28b Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
In quale momento avvenne la Trasfigurazione? Sei giorni dopo, secondo San Marco, e circa otto, secondo San Luca, il momento in cui San Pietro dichiara che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente (cfr. Mt 16, 13-17; Mc 8, 27-30; Lc 9, 18-21), e il Divin Maestro gli risponde: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16, 18). Subito dopo, però, Gesù annuncia le sofferenze che Lo attendono a Gerusalemme, anche se il significato delle sue parole non viene compreso dai suoi seguaci.
Gli Apostoli seguivano Nostro Signore ormai da molto tempo, ma purtroppo si erano fatti una doppia idea a Suo riguardo. Una era umana, perché, avendo assunto la nostra natura, soffriva le contingenze a cui essa è soggetta. Aveva fame e sete; Si stancava, come si può vedere, ad esempio, nel dialogo con la samaritana al pozzo di Giacobbe (cfr. Gv 4, 1-26), quando le chiede dell’acqua perché gli Apostoli erano andati a procurare del cibo; o quando dorme nella barca (cfr. Mt 8, 23-24; Mc 4, 37-38; Lc 8, 22-23). Accanto a queste apparenze comuni, c’erano fatti che denotavano qualcosa di superiore in Lui, come passare un’intera notte in preghiera senza, per questo, diminuire la sua attività il giorno seguente (cfr. Lc 6, 12-13); guarire malati e scacciare demoni con estrema facilità, per mezzo di un semplice comando, o addirittura insegnare una dottrina nuova ed estranea a qualsiasi scuola allora esistente, senza avere alcuna istruzione. Entrambi gli aspetti davano un’idea di Nostro Signore difficile da cogliere con un solo sguardo… In Lui si alternavano sfaccettature umane e divine, e tutti, Apostoli e discepoli, vedevano che quello era il Salvatore. Tuttavia, a causa dell’errata concezione messianica che avevano, vederLo crocifisso sarebbe stata una tremenda smentita di tutto ciò che si aspettavano, un vero e proprio scossone alle loro convinzioni, che avrebbe fatto perdere loro psicologicamente l’orientamento. I loro desideri più ardenti si sarebbero confrontati con l’esito doloroso della Passione e davanti alla Morte di Cristo sarebbe sorta la domanda cruciale: era o non era il Messia promesso?
Pastore zelante del suo piccolo gregge, Gesù si impegnava a prepararli a questi eventi quasi imminenti. Sapeva quanto avessero bisogno di essere rafforzati, di essere incoraggiati per rimanere saldi nella fede. Ma non conveniva che fosse fatto a tutti allo stesso modo, come afferma San Tommaso di Villanueva quando spiega il motivo per il quale tre Apostoli soltanto assistettero alla scena prodigiosa della Trasfigurazione: «Affinché la testimonianza di ciò che era stato visto fosse migliore e più concludente per gli altri, fu necessario che fossero presenti solo pochi, affinché l’evidenza del fatto e la grande quantità di testimoni non facessero perdere il merito della fede».2 I tre avrebbero dovuto poi sostenere gli altri nel momento della prova, diminuendo la sensazione di insicurezza che avevano di fronte all’apparente sconfitta del Messia. In questo modo, tutti avrebbero continuato a credere nella divinità di Gesù, sostenuti dalle parole di coloro che avevano assistito alla Trasfigurazione.
Quei prescelti sarebbero stati testimoni di molte delle umiliazioni subite da Nostro Signore Gesù Cristo durante la sua Passione e l’agonia nell’Orto degli Ulivi. Secondo il modo di agire abituale della Provvidenza, Essa chiede più sacrifici a chi è più favorito dalla grazia, a chi è più amato. E se qualcuno ha il privilegio di contemplare meraviglie soprannaturali, sarà scelto, molto probabilmente, per essere messo alla prova e per dimostrare nell’amore per la croce l’autenticità del suo amore per Dio. Quando l’anima è sottoposta a tribolazioni e il fardello sembra eccessivamente pesante, deve ricordarsi che la croce è il segno dei predestinati e, se il momento è di prova, dovrà arrivare l’ora della consolazione. Dio fa tutto con equilibrio e sostiene le anime nella misura delle loro necessità.
Grande deve essere stata l’impressione nella mente di questi tre testimoni al punto che l’evento è narrato nei tre Vangeli sinottici, oltre al fatto che San Pietro riporta nella sua seconda epistola il riferimento alla voce del Padre: «Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2 Pt 1, 18). Anche San Giovanni riporta nel suo Vangelo la splendida visione della gloria del Figlio di Dio, riferendosi probabilmente a questo episodio con queste parole: «E noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14).
La gloria si manifestò nella luce splendente
29 E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
Cristo volle rivelare la sua gloria “mentre pregava”. Una lezione per noi, che spesso diamo poca importanza alla preghiera per dare priorità alle occupazioni concrete della vita quotidiana. La preghiera rende la nostra anima celestiale e, per questo, non dobbiamo mai smettere di pregare.
Come possiamo intendere lo splendore sfolgorante di Gesù manifestato in questa occasione? Egli volle mostrare un assaggio di ciò cui assisteremo in Cielo. Infatti, era impossibile per Pietro, Giovanni e Giacomo contemplare la divinità di Nostro Signore con il senso della vista, perché era una realtà al di là della portata della natura umana, su questa terra. Ci sarà consentito vederlo solo in Cielo, con lo sguardo dell’anima. Ma al momento della Trasfigurazione, essi colsero ciò che l’occhio umano capta, cioè lo splendore esterno del Corpo sacro del Signore. La gloria del Corpo era soltanto un riflesso della gloria dell’Anima, incomparabilmente molto più splendida.
L’apice dell’Antica Legge si inchina di fronte al Vangelo
30 Ed ecco, due uomini parlavano con Lui: erano Mosè ed Elia,31 apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme.
Mosè era il punto più alto della storia veramente grandiosa del popolo ebraico, segnata da figure ineguagliabili come Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e tanti altri. La vita di quest’uomo provvidenziale è costellata di eventi stupendi. Forse nell’Antico Testamento non c’è stato nessuno simile a lui, non solo per la portata della sua vocazione, ma anche per la sua intimità con Dio, al punto che l’Autore Santo afferma: «Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (Es 33, 11). A sua volta Elia, la cui vita fu anch’essa caratterizzata dall’azione divina e dalla grandezza, era considerato l’apice del profetismo, essendo oggetto di particolare venerazione da parte dei pii israeliti, poiché la sua missione non era terminata. Nonostante fosse stato portato via su un carro di fuoco in modo misterioso, il profeta Malachia profetizzava il suo ritorno per svolgere ancora una missione speciale presso il popolo eletto (cfr. Ml 3, 23-24). Questa serie di circostanze rendeva il suo ricordo molto vivo tra tutti, quasi come se Elia fosse stato tra loro fino a quel momento.
Il fatto che entrambi siano apparsi sul Monte Tabor, certamente in un atteggiamento di sottomissione a Gesù, di cui la semplice narrazione evangelica non ci racconta i dettagli, confermava ancora più chiaramente ai tre testimoni ciò che la Trasfigurazione stessa diceva di per sé: Gesù Cristo era realmente il Messia promesso, il Figlio di Dio.
Un’enorme grazia poco compresa
32Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quel che diceva.
La reazione di Pietro attesta quanto fosse difficile per lui non esprimere a parole tutto ciò che gli stava accadendo intorno. Quello che aveva detto aveva ragion d’essere, perché rifletteva il suo desiderio di perpetuare quella situazione di felicità paradisiaca.
Essi erano estasiati da quelle meraviglie mai viste, ma allo stesso tempo avevano paura (cfr. Mc 9, 5-6), perché conservavano un certo attaccamento a molti principi che non corrispondevano a ciò che si stava svolgendo davanti a loro. Ogni desiderio di un Messia temporale, che avrebbe risolto i problemi di Israele, era ridotto a una minuzia di fronte a una scena così magnifica. Quando videro Gesù risplendente, probabilmente non compresero appieno la portata della Trasfigurazione, perché non erano ancora preparati per assimilare tutto ciò che Egli voleva insegnare loro. La nozione vera del Salvatore non si era ancora costituita nelle loro menti e quell’episodio si scontrava con i concetti distorti che predominavano dentro di loro. Questa contraddizione non impediva loro di fare l’esperienza di cosa sia un corpo dopo che si è nuovamente unito alla propria anima. «La fede», ci dice San Paolo, «è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb 11, 1). E in quell’istante essi vedevano anticipatamente una realtà annunciata dalla fede, ossia, lo splendore di quello che sarà un corpo glorioso. Tutto questo era accompagnato da grazie, perché se Nostro Signore si fosse trasfigurato senza fornire loro un ausilio soprannaturale particolarmente sensibile, a cosa sarebbe servito? La sola ragione non sarebbe stata in grado di sostenerli, essendo necessarie queste grazie con cui Dio ci educa e ci conduce alla santità.
Figli adottivi, Dio ci ama come ama il suo unico Figlio
34 Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo».
Per fissare ancor più nella sensibilità degli Apostoli quanto era importante quella visione, si verificò il fenomeno narrato in questi versetti. Soffermiamo la nostra attenzione sulla parola “Figlio”. Nostro Signore Gesù Cristo è la Seconda Persona della Santissima Trinità, Dio Figlio, l’unico Figlio generato dal Padre. Ma noi siamo inclusi in questa filiazione, perché siamo figli adottivi di Dio attraverso il Battesimo e, pertanto, siamo fratelli di Gesù, facciamo parte della famiglia divina. La gloria lì rivelata era un’anticipazione della medesima gloria che avremo nell’eternità, se corrisponderemo a questa altissima condizione. Per questo, dobbiamo ascoltare «ciò che Egli dice», perché «uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23, 10).
Nel “Prescelto” il Padre ha posto tutto ciò che poteva, ossia, l’infinito di Bontà, di Verità e di Bellezza. Anche a noi, che siamo i suoi eletti, Egli elargisce doni incalcolabili nel Battesimo e in tutti gli altri Sacramenti. Egli infonde il bene esistente in noi, per suo amore. Essere amati da Dio è un privilegio straordinario che dobbiamo custodire gelosamente, tenendoci lontani dal peccato e, se abbiamo la sfortuna di perdere lo stato di grazia, dobbiamo cercare di recuperare subito l’amicizia di Dio percorrendo le vie del pentimento per avvicinarci al tribunale misericordioso della Penitenza.
Le consolazioni non durano sempre
36 Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Ogni gioia in questo mondo ha la sua fine. Terminata quella grande esperienza mistica, era necessario che i tre Apostoli scendessero dal monte per dedicarsi all’evangelizzazione, che è sempre piena di ostacoli e di vicissitudini. Quando viene meno la grazia sensibile, ci resta la grazia cooperante, che non manca mai, ma che richiede la nostra collaborazione, che molto spesso è carente. E cominciano i problemi, perché nella vita quotidiana non abbiamo la stessa chiarezza nel comprendere le cose soprannaturali come nei momenti di azione della grazia operante su di noi.3 Come sottolineano gli Evangelisti, gli Apostoli avevano difficoltà a comprendere il panorama della Morte e Risurrezione che Nostro Signore aveva rivelato loro sul Tabor (cfr. Mt 17, 22-23; Lc 9, 44-45; Mc 9, 31-32); tendevano a interpretare ciò a cui avevano assistito con criteri umani – nel racconto di un altro Evangelista essi si domandavano tra loro cosa volesse dire «risuscitare dai morti» (Mc 9, 10) – e poco dopo si chiedevano chi di essi fosse il più grande (cfr. Lc 9, 46): si erano già dimenticati delle consolazioni della Trasfigurazione. E quando si trovarono di fronte alla terrificante tribolazione della Passione di Cristo, vacillarono, fuggirono.
Da questo fatto possiamo anche trarre una lezione per la nostra vita spirituale. Per non perdere di vista gli orizzonti soprannaturali e non cadere in tentazione, dobbiamo vivere secondo la visione che le grazie mistiche ci offrono. Esse sono molto più frequenti di quanto si pensi nella vita spirituale dei fedeli e sono un prezioso aiuto per perseverare nelle occasioni di prova.
II – Un riflesso dell’Assoluto
La Trasfigurazione ci dà un’idea del riflesso di Assoluto preparato per chi andrà in Paradiso. Soffermiamo la nostra attenzione su questa destinazione finale, la nostra risurrezione in uno stato di gloria, se per la misericordia di Dio ci salveremo.
Per capire meglio in cosa consiste, consideriamo prima la situazione dell’Uomo-Dio. Pur presentandosi con un Corpo sofferente, esso doveva essere glorioso,4 sotto diversi aspetti: in virtù dell’unione ipostatica, cioè dell’unione della natura divina con quella umana nella Persona del Verbo; per il fatto che la sua Anima sta nella visione beatifica fin dal momento del concepimento; e, infine, per i meriti conquistati con la sua Morte sulla Croce.
Noi, naturalmente, non abbiamo un’unione ipostatica con una Persona Divina, ma, facendo le debite proporzioni, siamo chiamati a vedere Dio faccia a faccia in Cielo, oltre ad essere beneficiati dai meriti del nostro Divin Redentore, trasferiti a noi dalla sua infinita clemenza. Abbiamo quindi, come Gesù, i titoli che ci garantiscono l’acquisizione del corpo glorioso dopo la risurrezione dei morti. Per questo, la Trasfigurazione ci dà una nozione di come saremo nell’eternità, stimolando in noi la speranza, perché, come afferma l’Apostolo, saremo nella vita futura simili a Cristo e con Lui trionferemo, «se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8, 17).
Così, con la testimonianza dei tre Apostoli su questo miracolo ci è stato indicato come sarà la felicità del Cielo, che ha spinto San Pietro a voler fare tre tende sul Tabor per non andarsene mai più da lì. Egli provava una gioia interiore che gli dava il desiderio di non scendere dalla montagna, di dimenticare le lotte e le fatiche che ancora lo attendevano di sotto, proprio come accade a noi quando siamo pervasi da una grande consolazione soprannaturale… vorremmo che non finisse mai!
L’eredità celeste
Ora, come ben sappiamo, il Cielo è l’eredità dei figli di Dio. Per comprendere più a fondo questa verità, facciamo un contrasto. Se consideriamo com’è l’inferno, possiamo vedervi la totale assenza di amore: là nessuno ama il suo prossimo, si vive in un delirio di odio reciproco, sia verso i Beati del Cielo, sia verso coloro che condividono la stessa disgrazia. È l’odio perpetuo verso tutto e tutti. Al contrario, in Paradiso si vive eternamente nell’amore. E se l’amore causa felicità, questa sarà l’essenza del Cielo, frutto della visione beatifica, perché è una necessità dell’intelligenza aderire alla verità e alla volontà di amare il bene alla sua portata. Tale aspirazione delle potenze dell’anima sarà soddisfatta nella sua pienezza nel possesso della visione di Dio stesso.
Un’immagine può aiutarci a comprendere meglio questa realtà: quando ci viene presentato un frutto straordinariamente bello e gustoso, come un mango al punto giusto di maturazione mentre emana il suo attraente profumo, la nostra intelligenza percepisce la sua autenticità, facendo sì che la voglia di mangiarlo cresca. Se all’assaggio il sapore corrisponde a quello che ci aspettavamo, la nostra volontà e la nostra intelligenza saranno soddisfatte e noi ci sentiremo appagati.
Si potrebbe contestare tale dimostrazione con l’esistenza del male, poiché sembrerebbe che l’uomo lo ami, ad esempio, quando pecca. Infatti, praticando il male l’uomo inganna se stesso, pensando illusoriamente di trovare il bene nel peccato, perché non è capace di amare il male per amore del male e di abbracciare l’errore per amore dell’errore.5 Sono le apparenze false suggerite dai sensi che obnubilano l’intelligenza e indeboliscono la volontà.6 Nel furto – per parlare di alcuni peccati – il ladro vuole ottenere per sé un bene, la proprietà altrui, senza la fatica e lo sforzo di lavorare onestamente. Sa che è una violazione della Legge di Dio, un grave danno per la parte lesa e per l’ordine, ma opta egoisticamente per il proprio vantaggio. Per vincere la resistenza della sua coscienza, egli elaborerà sofismi per giustificare l’atto illecito e dargli una certa aria di bene senza i quali non potrebbe commetterlo. È per lo stesso motivo che l’eresia cerca di rivestirsi degli abiti della verità per avere libero corso: se ostentasse l’errore senza veli, nessuno la accetterebbe.
In Cielo, dove non c’è frode, ci sono il Bene e la Verità in essenza e, per questo, è impossibile per l’uomo smettere di amare. In questo modo, dal momento in cui l’anima vede Dio nella visione beatifica, l’intelligenza e la volontà aderiscono immediatamente a Lui, in modo assoluto e irrevocabile.
Come sarà la felicità in Cielo
Tutti noi siamo stati creati per Dio ed è a Lui che la nostra anima anela. Dal fatto di possederLo in Cielo deriva questa pienezza di piacere. Perché pienezza? Perché l’intensità e la durata della gioia dipendono dalla qualità dell’oggetto posseduto. Se è piccola, col tempo si consuma e ce ne stanchiamo, come di solito accade, prima o poi, con i beni materiali e con tutto ciò che è di questo mondo. Il piacere umano è caduco. Chi può ascoltare senza interruzioni la stessa musica, per quanto bella possa essere, o contemplare per anni, senza muoversi, un unico paesaggio? In questa vita non c’è nulla che non finisca per annoiarci. Ma Dio no, perché in Cielo sarà visto nel suo tutto, ma non totalmente. E poiché Egli è suprema Verità e Bellezza, presenterà sempre ai nostri occhi aspetti nuovi per tutta l’eternità, senza mai annoiarci.
«Allora», commenta San Roberto Bellarmino, «la sapienza non consisterà più nell’indagine della divinità nello specchio delle cose create, ma nella stessa visione scoperta dell’essenza di Dio, causa di tutte le cause, e della prima e Somma Verità».7 Il desiderio naturale di sapere e di conoscere si placa con questa visione, perché la nostra comprensione sarà elevata dalla luce di Dio – il lumen gloriæ –, per essere capaci di comprenderLo nel modo più perfetto possibile alla nostra condizione. E se in questa vita la comprensione di alcune verità ci porta gioia, come sarà la felicità originata dalla dilatazione dell’intelligenza umana con un prestito dell’intelligenza divina?
Tuttavia, il godimento celeste non sarebbe completo se si limitasse a soddisfare solamente i desideri dell’intelligenza. In esso anche la volontà raggiunge la pienezza della sua soddisfazione. Il cuore ha necessità di amare e di essere amato, e niente produce tanta felicità quanto realizzare questo ideale, anche se in modo passeggero. Quando qualcuno che apprezziamo molto, soprattutto se è superiore a noi in qualche punto, ci dice: «Ti stimo molto», il nostro cuore si allarga perché ci sentiamo amati. Quanto immensa sarà la nostra gioia quando Dio ci dirà: «Figlio mio, ti voglio molto bene! Tanto che ti ho creato, ed è stato il mio amore che ha infuso nella tua anima tutto il bene esistente in essa. Vieni, figlio mio! EccoMi qui per essere la tua gioia in eterno!». Sant’Alfonso dice che le anime «in Cielo hanno la certezza che amano e che sono amate da Dio. Vedono che il Signore le abbraccia con un grande amore, che non cesserà mai, per tutta l’eternità».8 Questa è la felicità nel Cielo!
Una felicità che appaga senza saziare, perché non produce noia. Come la Verità, anche la Bontà di Dio è infinita, offrendo sempre all’uomo di conoscere qualcosa di nuovo e degno di essere amato. I Santi hanno creato un’immagine molto espressiva paragonando il diletto eterno a una sete che, venendo soddisfatta, non si placa mai: sete di sete. «I beni celesti saziano e rallegrano sempre il cuore […]. E sebbene sazino pienamente, sembrano sempre nuovi, come se fosse la prima volta che li assaggiamo; ne godiamo sempre e sempre li desideriamo;li desideriamo sempre e sempre li raggiungiamo».9
III – Gesù Si è trasfigurato per ciascuno di noi
Tutte queste considerazioni sulla gloria del Cielo ci aiutano a comprendere meglio il significato del Tabor. Quando Gesù Si trasfigura davanti agli Apostoli, lo fa anche davanti a ciascuno di noi, perché la Liturgia ci permette di beneficiare oggi dell’effusione di grazie avvenuta duemila anni fa in quell’evento. Condividiamo lo stesso incanto di San Pietro, San Giovanni e San Giacomo. E a distanza comprendiamo – forse anche meglio degli Apostoli allora – il messaggio che il Maestro Divino vuole trasmettere per il nostro bene.
Ogni cristiano, quando segue fedelmente le orme di Gesù, ha nella sua vita spirituale momenti di Tabor nei quali vede con particolare chiarezza lo splendore di Nostro Signore Gesù Cristo. È l’ora della Trasfigurazione. Potrà accadere durante una celebrazione liturgica, ricevendo l’Eucaristia, durante una Confessione, quando recita una preghiera particolarmente fervente, o, addirittura, in una circostanza inaspettata della sua vita quotidiana. Chi sceglie l’occasione per favorire l’anima con grazie mistiche è lo Spirito Santo. Il ricordo di queste ineffabili consolazioni va conservato nella memoria con cura, come chi incolla in un album le foto degli episodi più belli della vita, per rivivere in seguito la felicità di quegli istanti unici.
In senso opposto, il buon cristiano ha anche i suoi Venerdì di Passione lungo il suo cammino terreno. È allora che assomiglia di più al Salvatore. Saranno semplici difficoltà, potrà esse una malattia dolorosa, problemi familiari, rovesci finanziari, drammi, disillusioni, delusioni o tragedie che non mancano mai… Sembra allora che siamo stati abbandonati da Dio, che Egli non ascolti le nostre preghiere, le nostre grida di angoscia, e siamo tentati contro la fede, vacilliamo, dubitiamo. Gesù dà l’impressione di essere distante. Ma no! Egli è più vicino a noi, anche se non sentiamo la sua presenza al nostro fianco. Dobbiamo pertanto fare un piccolo sforzo, che non è né faticoso né laborioso, per ricordare i nostri momenti di trasfigurazione in cui abbiamo percepito con maggiore intensità il suo aiuto, il suo amore di Padre e la sua sollecitudine di Pastore nei nostri riguardi. Questo semplice ricordo ci rafforzerà nella fede, potrà ravvivare le consolazioni con cui siamo stati favoriti in passato e ci aiuterà a superare i periodi di aridità o le prove e le tribolazioni dell’esistenza. La speranza di una ricompensa eterna è un prezioso incoraggiamento a sopportare, con cristiana rassegnazione, la croce quotidiana, così come i tre Apostoli furono incoraggiati durante la Passione dall’essere stati testimoni della Trasfigurazione e San Giovanni poté stare ai piedi della Croce, sul Calvario, accanto a Maria Santissima e alle Sante Donne. Sappiamo dunque dar valore a questi lampeggiamenti del Tabor, perché sono la chiave della nostra vita spirituale, il fondamento della nostra perseveranza. ◊
Note
1 CONCILIO VATICANO II. Lumen gentium, n. 32.
2 SAN TOMMASO DA VILLANUEVA. Concio 94. Dominica secunda Quadragesimæ, n.1. In: Obras Completas. Madrid: BAC, 2011, vol.II, p.735.
3 Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. I-II, q.111, a.2.
4 Idem, III, q.14, a.1.
5 Idem, I-II, q.77, a.2.
6 Idem, q.75, a.2, ad 1; q.77, a.1.
7 SAN ROBERTO BELLARMINO. Elevação da mente a Deus pelos degraus das coisas criadas. São Paulo: Paulinas, 1955, p.247.
8 SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI. Sermones abreviados para todas las dominicas del año. P.II, S.II, serm. 54 In: Obras Ascéticas. Madrid: BAC, 1954, t.II, pp.918-919.
9 Idem, p. 919.