Vangelo – Mercoledì delle Ceneri
1 “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. 2 Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3 Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4 perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
5 Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6 Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
16 E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 17 Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, 18 perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. (Mt 6, 1-6.16-18).
I – Tempo di penitenza e riconciliazione
Attraverso il ciclo liturgico, con saggezza e didattica, la Chiesa ricorda nel corso dell’anno gli episodi più importanti dell’esistenza terrena del Verbo Incarnato. Le solennità dell’Annunciazione e del Natale, le commemorazioni del Triduo Pasquale e l’Ascensione di Nostro Signore in Cielo, tra le altre, compongono un caleidoscopio variegato, presentando alla pietà dei fedeli vari aspetti della perfezione infinita del nostro Redentore. Le grazie dispensate dalla Provvidenza in ognuno di questi momenti storici rivivono in qualche modo, e scendono su coloro che devotamente partecipano a queste festività.
Precedendo le solennità più importanti — la Nascita del Salvatore e la sua Passione, Morte e Risurrezione — la Chiesa destina due periodi di preparazione: l’Avvento e la Quaresima, poiché è opportuno che, per celebrare così elevati e sublimi misteri, i credenti purifichino le loro anime dalle miserie e dalle affezioni, rendendole più atte a ricevere i doni celesti.
Il Mercoledì delle Ceneri iniziano i quaranta giorni che precedono la Settimana Santa. Le tre letture di questo giorno — un passo del Profeta Gioele, un brano di una lettera di San Paolo e un altro del Vangelo — ci parlano della necessità del digiuno e della penitenza come mezzi per combattere meglio i vizi, attraverso la mortificazione del corpo, e propiziare l’elevazione della mente a Dio. Infatti, secondo quanto ci insegna il Papa San Leone Magno, “ci mortifichiamo per estinguere in noi la concupiscenza. E il risultato della mortificazione deve essere l’abbandono delle azioni disoneste e dei desideri ingiusti”.1
Come più avanti vedremo, i testi liturgici in questione si riferiscono, in particolare, ad una sorta di penitenza che piace particolarmente a Dio e che è essenziale per la nostra vita spirituale. Si tratta di evitare le esagerazioni dell’amor proprio, cercando di non attirare l’attenzione degli altri su se stessi, in modo che l’anima, pulita e adorna della virtù dell’umiltà, offra al Signore un sacrificio dal dolce profumo.
“Ricordati, uomo, che sei polvere”
In una forma convincente, la liturgia del Mercoledì delle Ceneri ci ricorda anche la nostra condizione di mortali: “Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris — Ricordati uomo, che polvere sei e polvere tornerai” dice, categoricamente, una delle due formule utilizzate dalla Chiesa per l’imposizione delle ceneri.1 Dopo la cerimonia, la fronte dei fedeli rimane segnata da un trattino scuro il cui aspetto tragico e privo di bellezza sembra proclamare: “Da un momento all’altro , possiamo essere colti dalla morte, tornando alla polvere!”
Spesso la considerazione dell’arduo passaggio da questa vita all’eternità ci inquieta. Tuttavia, questo pensiero è altamente benefico per convincerci della necessità di evitare il peccato che senza il pentimento e l’immeritato perdono, potrà chiuderci per sempre le porte del Cielo: “Ricordati della tua fine, e mai peccherai” (Sir 7, 40). A questo proposito, con proprietà, Don Prospero Guéranger raccomanda: “Se vogliamo perseverare nel bene, dove la grazia di Dio ci ha ristabiliti, siamo umili, accettiamo la sentenza e non consideriamo la vita se non come un cammino, più o meno lungo, che termina nella tomba”.2
“Lasciatevi riconciliare con Dio”
Nella prima lettura di oggi, San Paolo ci incoraggia a vivere nella grazia di Dio: “Nel nome di Cristo, vi supplichiamo: lasciatevi riconciliare con Dio” (II Cor 5, 20).
E con tutta ragione, poiché il peccato ci separa da Dio, rendendo necessaria la riconciliazione. La Dottrina Cattolica ci insegna che nemmeno i meriti stessi della Vergine Maria sommati a quelli degli Angeli e dei Beati in Cielo e a quelli di tutti coloro che avrebbero potuto essere creati e non lo sono stati, sarebbero sufficienti a riparare l’offesa di un solo peccato veniale. Tanto più trattandosi di colpa grave! Solamente l’Adorabilissimo Sangue di Dio avrà merito infinito per redimere le offese commesse dagli uomini, da Adamo ed Eva, come, con l’usuale elevato linguaggio di sempre, ci mostra San Paolo: “Colui che non ha conosciuto il peccato, Dio Lo ha fatto peccato per noi, affinché in Lui noi diventassimo giustizia di Dio” (II Cor 5, 21). L’Incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità, con la sua Passione e Morte in croce, è stato il mezzo scelto per restituire all’umanità traviata la piena amicizia con Dio.
Inoltre, per la grandezza insuperabile dell’opera divina, tale fu la sovrabbondanza di grazia ottenuta col sacrificio del Calvario che, pur sommando tutte le possibili mancanze degli uomini, mai renderà insufficienti i meriti infiniti del Preziosissimo Sangue di Cristo.3
Se Gesù non avesse assunto su di sè il debito dei nostri primi padri, per mezzo dell’oblazione del suo Corpo, sarebbe impossibile la nostra riconciliazione con Dio4 e troveremmo per sempre chiuse le porte del Cielo.
II – Amore proprio, preghiera e digiuno
Nel brano evangelico che oggi analizziamo, vediamo il Divino Maestro prendere come esempio didattico, una scena caratteristica di quei tempi. Sotto una prospettiva storica, Egli censura un’atteggiamento corrente, soprattutto tra i farisei ma, siccome la parola di Dio è eterna, contiene una lezione per gli uomini di tutti i secoli.
Il principale risucchio in cui si dissipano i meriti
1 “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli”.
Era difficile che i farisei fossero alieni all’ipocrisia. Spinti da un supino orgoglio, si volgevano a se stessi al punto da dimenticarsi di Dio, facendo le loro opere buone con l’intento di guadagnare prestigio “davanti agli uomini”.
Il difetto rilevato dal Signore Gesù in questo versetto era comune fra loro e, tristemente, non è raro nemmeno oggi. Abbondano nelle Sacre Scritture i consigli su questo peccato capitale, radice di molti vizi, principalmente nel libro del Qoelet: “Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qo1, 2). E’ questa la preoccupazione del Divino Maestro.
Per quanto riguarda gli atti umani possiamo affermare che alcuni sono neutri, come per esempio cantare o dipingere. La sostanza e il merito provengono loro dall’intenzione e dall’obiettivo con cui li eseguiamo. Altri sono buoni di per sé, per il fatto di essere ordinati dalla ragione per un obiettivo onesto. Ma, secondo il Dottore Angelico, “può accadere che un atto di per sé virtuoso diventi, eventualmente, vizioso, a causa di talune circostanze”.5
Ora, la vanità macchia spesso i nostri atti di virtù e ci deruba dei meriti. Infatti, come sottolinea il Cardinal Goma, essa è “un nemico pericolosissimo delle opere buone: praticarle con la possibilità di essere visto e ammirato dagli altri, è perdere la ricompensa corrispondente a loro quando sono fatte con buone intenzioni”.6
Affermano i maestri della vita spirituale che la vanità è un vizio così radicato nell’uomo che, per così dire, lo abbandona solamente mezz’ora dopo la sua morte. Per vincerlo, si richiede molta preghiera, pazienza e sforzo. La preghiera, perché attraverso essa si ottengono le grazie per combatterlo. Pazienza e sforzo, perché dobbiamo combattere contro di esso giorno e notte, impedendogli di stabilirsi nella nostra anima; come raccomandato da San Giovanni Crisostomo: “Bisogna prestare molta attenzione al suo ingresso, proprio come uno che si mette in guardia contro una belva in procinto di attaccare chi non è vigilante”.7
Si potrebbe usare un’espressione forte, ma molto vera: la vanità è il principale risucchio in cui si dissipano i meriti delle nostre preghiere e buone opere. È anche un veleno per l’anima, perché la lascia priva di forze per affrontare le tentazioni e, pertanto, esposta a ogni specie di debolezze e di capitolazioni.
Va osservato, d’altra parte, che dicendoci: “Guardatevi dal fare buone opere davanti agli uomini, col fine di essere da loro ammirati”, il Maestro non ci invita a nasconderci sempre per fare il bene, perché praticare la giustizia davanti agli uomini, può essere motivo di edificazione per il prossimo e gloria per il Creatore, come ha sottolineato il grande Bossuet: “Egli non ci impedisce di praticare la giustizia cristiana in ogni occasione, per l’edificazione del prossimo; al contrario Egli ha detto: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone opere e glorifichino vostro Padre che è nei cieli”. […] Edificate il prossimo, con le vostre azioni esterne, e tutto in voi, persino un batter di ciglia, sia ordinato, ma tutto si faccia con naturalità e semplicità, mirando a glorificare Dio”.8
Fare l’elemosina cercando il plauso
2 “Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa”.
Non avendo ricevuto ancora la linfa rigeneratrice del cristianesimo, nell’umanità di quell’epoca imperava l’egoismo in modo tale che il fare l’elemosina era una pratica poco comune. Chi lo faceva, si considerava degno del plauso altrui, per la sua presunta bontà. Da qui era costume fare l’elemosina “con molta ostentazione”.9
Anzi: “Sembra che, per eccitare la generosità, si stabilì l’abitudine di proclamare il nome dei donatori […] e si arrivava persino ad onorarli, offrendo loro i primi posti nella sinagoga”.10
Tuttavia, Nostro Signore insegna, in questo brano del Vangelo, che colui che fa l’elemosina per ottenere l’approvazione degli altri può considerarsi ben pagato dagli elogi così ottenuti. Non deve aspettarsi un premio soprannaturale, perché, come sottolinea Padre Tuya, “Dio ricompensa in giustizia soprannaturale solo quello che si fa in modo soprannaturale per amore di Lui, così come Gli ripugna questo censurabile procedimento che è l’ipocrisia farisaica”.11
Ma chi fa l’elemosina discretamente, soltanto davanti a Dio e per amor di Dio, questi sì, riceverà da Lui la ricompensa.
La ricompensa, dobbiamo aspettarcela solo da Dio
3 “Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4 perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.
Nel versetto precedente, Nostro Signore riprende coloro che cercano la vanagloria nella pratica dell’elemosina; in questo, ci rimprovera la compiacenza vanagloriosa di compiere le opere buone. Per combattere questo difetto, dobbiamo sforzarci di non trattenere la nostra attenzione su ciò che facciamo di buono. “Se fosse possibile — commenta Bossuet — sarebbe necessario che nascondeste a voi stessi il bene che fate; cercate di nascondere ai vostri occhi, almeno il suo merito; […] impegnatevi nella pratica delle opere buone al punto da non preoccuparvi mai di ciò che da queste risulterà per voi: Lasciate tutto per conto di Dio, così solo Lui vi vedrà, vi occulterete da voi stessi”.12
Sulla stessa linea argomenta il Cardinale Goma: “Se fosse possibile, persino noi dovremmo ignorare le nostre elemosine. La ricompensa, dobbiamo aspettarcela solo da Dio”.13
A complemento di queste affermazioni, Maldonado spiega: “Non c’è colpa ad essere visti dagli altri quando si fa il bene, ma nel voler essere visti. Così pure non c’è colpa nel voler essere visto, a meno che non sia per ottenere l’elogio degli uomini. ‘Brilli la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il vostro Padre che è nei Cieli’”.14
È vana la preghiera di chi mira all’esteriorità
5 “Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa”.
A quel tempo, era dovere di ogni ebreo maschio pregare tre volte al giorno: la mattina, in coincidenza con il sacrificio del mattino, a mezzogiorno e nell’ora del sacrificio della sera. Le preghiere erano di solito fatte in piedi con le braccia levate al Cielo, come a simbolizzare il dono che si sperava di ricevere.15
Le persone erano abituate a pregare all’interno delle loro case. I farisei, invece, sceglievano allo scopo i luoghi più visibili nelle sinagoghe o nelle piazze pubbliche. Lì gesticolavano e ripetevano a memoria un gran numero di preghiere, al fine di impressionare chi passava per di là. Inutile dire che erano vane queste preghiere, dato che essi avevano già ottenuto ciò che desideravano: il plauso dei passanti.
Non cadiamo, però, nell’errore di pensare che Nostro Signore condanni ogni preghiera in pubblico. Gesù rimprovera in questo versetto solo la preoccupazione per l’esteriorità, tanto frequente negli uomini di quel tempo e l’atteggiamento generale delle persone che pregano con ostentazione o cercando unicamente la lode dei simili.
Nella nostra vita di pietà, dobbiamo cercare di essere discreti
6 “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.
L’essenza della preghiera, insegna il Catechismo, è l’“elevazione della mente a Dio”.16 Così, è possibile a chiunque rimanere in preghiera anche durante gli atti ordinari della vita, realizzandoli con lo spirito rivolto al Cielo.
Pertanto, per pregare non è necessario assumere l’atteggiamento palese dei farisei. Dobbiamo, al contrario, essere discreti in manifestazioni esterne della nostra devozione personale, evitando gesti o parole che pongano l’accento sulla nostra stessa persona.
Ma se, nonostante questo, la nostra devozione sarà notata dagli altri, non dobbiamo turbarci, tranquillizziamoci con questo insegnamento di Sant’Agostino: “Non c’è peccato nell’esser visti dagli uomini, ma c’è quando si procede con la finalità di essere da loro visti”.17
Il digiuno trasformato in un atto di carattere sociale
16 “E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa”.
Lo spirito orientale, nella sua ricchezza espressiva, è incline ad atteggiamenti drammatici, a volte belli, ma che, nella pratica religiosa, possono estrapolare i modelli normali. Così era con i farisei, che, digiunando, mettevano cenere sul capo, non si pettinavano la barba e perfino si dipingevano il volto per dare un’idea di tristezza, ostentando una fisionomia da tragedia.18 Avevano trasformato il digiuno in un atto di carattere sociale, una messa in scena, per convincere gli altri della loro pretesa virtù. E non temevano di ricorrere a tutti i mezzi disponibili per raggiungere questo obiettivo.
Ancora una volta, Nostro Signore, li riprende per il fatto di servirsi dell’apparenza di giustizia per impressionare gli altri, e afferma che erano stati già ricompensati dal loro digiuno.
A proposito di questo versetto, a noi tocca un’applicazione: quando facciamo qualcosa di difficile, non cerchiamo mai di attirare l’attenzione degli altri, mendicando qualche lode. Così procedevano molti santi che, praticando severi digiuni, mortificazioni e austerità spaventose, si presentavano, per mezzo di una santa dissimulazione, con un’apparenza esteriore allegra e gioviale.
Gioia e pulizia nel praticare la virtù
17 “Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, 18 perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.
Oltre a rendere chiaro quanto tutte le nostre azioni debbano essere realizzate in funzione di Dio, Gesù indica qui la fondamentale importanza della pulizia per la creatura umana. Dobbiamo eccellere nella pulizia del corpo, come riflesso della purezza che vogliamo per il nostro spirito ed affiancando una presentazione impeccabile alle buone azioni, aiuteremo a dimostrare che la vera felicità si trova nella pratica della virtù.
Quanto al consiglio di ungere il capo, spiega San Girolamo: “Si tratta qui del costume che c’era in Palestina, di ungersi il capo nei giorni di festa”. E aggiunge che così, “il Signore ci ordina di mostrarci felici e gioiosi, quando digiuniamo”.19
III – La quaresima ci invita a crescere in umiltà
Il Vangelo del Mercoledì delle Ceneri ci presenta lo spirito con cui si deve vivere la Quaresima: non fare opere buone, al fine di ottenere l’approvazione degli altri, non cedere all’orgoglio né alla vanità, ma cercare in tutti i modi di piacere a Dio soltanto.
Nel digiuno, nella preghiera o nella pratica di qualsiasi opera buona, non si può elevare come fine ultimo il beneficio che da lì possa risultarci, ma tendere alla gloria di Colui che ci ha creati, poiché tutto ciò che è nostro, ad eccezione delle imperfezioni, miserie e peccati, appartiene a Dio. E anche i nostri meriti, perché è Gesù stesso che afferma: “ Senza di Me non potete fare nulla” (Gv 15, 5).
Quindi, se abbiamo la grazia di praticare una buona azione, dobbiamo riferirla immediatamente al Creatore, restituendoGli i meriti, perché questi appartengono a Lui, non a noi. “Chi si gloria, si glori nel Signore” (I Cor 1, 31), ci ammonisce l’Apostolo.
Con il sacerdozio comune a tutti i battezzati,20 ogni fedele è chiamato, in determinate circostanze, ad agire come mediatore delle grazie che provengono da Dio a beneficio degli altri, e delle lodi che da loro si innalzano al trono dell’Altissimo. In quest’occasione, stiamo attenti a non appropriarci di nulla, perché tutto quanto possediamo di virtù, bontà o bellezza — tanto le facoltà dell’anima quanto le qualità corporali e lo sviluppo del nostro essere fisico, intellettuale e morale — tutto questo proviene da Dio.
Santa Teresa di Gesù definisce così l’umiltà: “Dio è la somma verità, e l’umiltà consiste nel procedere nella verità, infatti di grande importanza è non vedere cosa buona in se stessi, ma solo la miseria e il nulla”.21
Riconosciamo i benefici che Dio ci dà e per essi rendiamoGli grazie, non collocandoci mai come oggetto di questa lode, giudicando che siamo noi la fonte di ogni virtù o qualità.
In questo inizio di Quaresima, cerchiamo, più ancora della mortificazione corporale, di accettare l’invito che la Liturgia saggiamente ci fa, combattendo l’amor proprio con tutte le nostre forze. “Cercate il merito, cercate la causa, cercate la giustizia, e vedete se trovate altro che non sia la grazia di Dio”.22
Saranno a destra di Nostro Signor Gesù Cristo, nel giorno del Giudizio Finale, soltanto coloro che avranno vinto l’orgoglio e l’egocentrismo, riconoscendo che “ogni dono prezioso e ogni dono perfetto vengono dall’alto” (Gc 1, 17). Infatti l’uomo ha davanti a sé solo due strade: o amare Dio sopra ogni cosa, fino alla dimenticanza di sé, o amare se stesso sopra ogni cosa, fino alla dimenticanza di Dio.23 Non esiste un terzo amore.
Approfittiamo, dunque, di questo Tempo di Quaresima per crescere nell’umiltà e prendere coscienza chiara dei nostri limiti, dal momento che “l’uomo non può ricevere niente, a meno che gli sia dato dal Cielo”(Gv 3, 27).
Ci servano da stimolo queste confortanti parole di una celebre guida spirituale, padre Reginald Garrigou-Lagrange, OP. “Quanto più la nostra anima progredisce nella vita divina della grazia, tanto più sarà una viva immagine della Santissima Trinità. All’inizio della nostra esistenza, l’egoismo fa pensare specialmente a noi facendo amare noi stessi attribuendoci tutto. Se, però, saremo docili alle ispirazioni dell’Alto, verrà il giorno in cui penseremo soprattutto, non a noi stessi, ma a Dio, e a proposito di tutte le cose, piacevoli o penose, Lo ameremo più di noi stessi e vorremo costantemente portare le anime a Lui”.24 ◊
Note
1 SAN LEONE MAGNO. In sermone 6 de Quadragesima, 2.
2 Missale Romanum. 3.ed. Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2002, pag.198.
3 GUERANGER, Prosper. L’Année liturgique. Le temps de la Septuagésime. Tours: Maison Alfred Mame et fils, 1921, pag.240.
4 Cf. SAN TOMMASO D’AQUINO. Summa Teologica, III, q.48, a.2.
5 Cf. Idem, q.1, a.2, ad 2.
6 SAN TOMMASO D’AQUINO. Summa Teologica, II-II, q.147, a.1, ad.1.
7 GOMÁ Y TOMÁS, Isidro. El Evangelio explicado. Barcelona: Casulleras, 1930, v.II, pag.185.
8 SAN GIOVANNI CRISOSTOMO. Homiliæ in Matthaeum. Hom. 19,1.
9 BOSSUET, Jácques-Bénigne. Œuvres Choisies de Bossuet. Versailles: Lebel, 1821, v.II, pagg.47-48.
10 TUYA, OP, Manuel de. Biblia comentada. Madrid: BAC, 1964, v.II, pag.127.
11 Idem, ibidem.
12 Idem, p.126.
13 BOSSUET, op. cit., pag.48.
14 GOMÁ Y TOMÁS, op. cit., pag.186.
15 MALDONADO, SJ, Juan de. Comentarios a los cuatro Evangelios – I Evangelio de San Mateo. Madrid: BAC, 1950, pag.282.
16 Cf. TUYA, OP, op. cit., pag.129. Molto interessante è la proposta che fanno i professori di Salamanca, di tradurre la parola greca hestótes con “con posa” (al posto di “in piedi”), osservando, acutamente, che “con posa” sarebbe più in accordo colcontesto di questo passo.
17 Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2559.
18 SANT’AGOSTINO. De sermone Domini, 2, 3.
19 Cf. TUYA, OP, op. cit., p.151-152; GOMÁ Y TOMÁS, op. cit., pag.191.
20 SAN GIROLAMO, apud SAN TOMMASO D’AQUINO, Catena Aurea.
21 PCol Battesimo, partecipiamo “del sacerdozio di Cristo, della sua missione profetica e regia” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1268).
22 Cf. SANTA TERESA DE JESUS. Las Moradas. Morada sexta, c.10, § 6-7.
23 SANT’AGOSTINO. Sermo 185: PL 38,999. In: Liturgia delle Ore I. Seconda Lettura del giorno 24 dicembre.
24 SANT’AGOSTINO. De Civitate Dei, XIV, 28: “Due amori generarono due città: quella terrena, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio; quella celeste, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé”.
25 Garrigou-Lagrange, OP, Reginald. La Sainte Trinité et le don de soi. In: Vie Spirituelle n.265, maio, 1942.